“Penso alla morte per godermi la vita”

L’artista serba è protagonista oggi di un incontro al Maxxi dove presenta “Rhythm O”, la performance estrema con cui indagò i limiti del proprio fisico e delle emozioni: “Avevo 33 anni, furono sei ore d’inferno”
di Leonetta Bentivoglio
Grande fattucchiera della performing art, oltre che pasionaria che da idolo delle avanguardie s’è trasformata in regina globale nel suo campo, Marina Abramovic? “buca” lo schermo del computer col suo volto possente, incorniciato da una chioma vasta come un mantello. Nel tempo ha assunto un’aria sempre più stregonesca, «e se fossi nata durante il Medioevo mi avrebbero mandata al rogo». Ha un carisma prorompente anche così, schiacciata dentro la luminosa superficie digitale. Si fa intervistare in esclusiva via Zoom nella sua casa di New York prima di volare a Roma, dove stasera sarà al centro di un incontro organizzato dal Maxxi nell’ambito di un’esposizione sulle “Voci eroiche dell’ex Jugoslavia”.
La mostra include il set della performance Rhythm 0 , con cui l’artista serba indagò i limiti del proprio fisico e delle proprie emozioni. Presentata allo Studio Morra di Napoli nel 1974, prevedeva un tavolo con 72 oggetti tra cui coltelli, forbici, catene, liquidi, cibi, fiori e una pistola carica. Tutto era a disposizione dei visitatori, che potevano farne ciò che desideravano. Anche infierendo sul corpo di Marina. «Nelle sei ore di quell’evento io ero una cosa inerme e muta», racconta. «Mi presi ogni responsabilità su ciò che mi sarebbe potuto succedere, incluso l’essere uccisa. Sfidavo il modo in cui all’epoca veniva recepito lo strumento della performance, svilito e disprezzato. Ero criticatissima: mi accusavano di essere esibizionista e masochista. A Belgrado si scagliavano tutti contro di me mentre io infrangevo i muri delle convenzioni».
Che cosa avvenne in quella storica performance?
«L’inferno. Sei ore sono un tempo lungo, che consente alle persone di abbattere le proprie inibizioni fino alla ferocia. I miei abiti vennero spezzettati, le lamette tagliarono la mia pelle e ci fu chi succhiò il mio sangue. Ero nuda, ferita e in lacrime.
Mi spuntò una ciocca di capelli bianchi. Nel 2010, al MoMA di New York con The Artist Is Present , ho dato agli spettatori regole ben diverse imponendo restrizioni.
L’artista era presente a sé, condizione per il contatto, ma era anche un dono (“present”). Lungo 736 ore chiunque, seduto di fronte a me, poteva guardarmi e parlarmi, ma non toccarmi. Nel ’74 a Napoli avevo lavorato con lo spirito basso degli esseri umani. Al MoMA osservavo il loro spirito alto. Nella prima performance piangevo, nella seconda piangeva il pubblico».
“Rhythm 0” sottolineò il senso della passività come stimolo alla violenza. Quell’azione rappresentò un segnale di condanna per le brutalità che subiscono le donne?
«No, non la concepii affatto così. Una cosa è abusare di me contro la mia volontà. Un’altra è invitare il pubblico a fare ciò che vuole di me.
Nella vita non ho mai accettato compromessi né sono mai stata abusata. Detengo il controllo. Per questo sono divenuta un modello per le donne delle giovani generazioni».
Sente giusta per sé la definizione di femminista?
«La rifiuto. Ho un corpo femminile ma la mia arte non è maschile né femminile. C’è solo l’arte buona e cattiva. E se capisco le ragioni per cui le donne devono organizzarsi per proteggersi, nel mio caso non è mai stato così. Mia madre era un’eroina nazionale, un maggiore dell’esercito: da lei dovevo difendermi, non dagli uomini. La potenza delle donne è insuperabile. Creiamo vita, generiamo figli. Non c’è paragone tra l’immensità della nostra forza e quella maschile. Le donne devono imparare a riconoscere questo».
In Italia si dibatte su una legge contro l’omofobia e si parla in continuazione di corpi che superano gli incasellamenti nei generi. In che modo lei, artista del corpo per eccellenza, si pone di fronte a questi temi?
«In Grecia la sodomia e il lesbismo non erano categorie. Esistevano e basta. Poi sono arrivate le proibizioni religiose e politiche. L’essere umano è un insieme di tante cose e io le accetto tutte. Quel che invece mi fa paura è la robotica. Temo il rapporto tra il corpo e le nuove tecnologie.
Credo nelle potenzialità del fisico ma così come l’ha fatto la natura: contraddirla è rischioso».
Le capita di riflettere spesso sull’idea di fine del corpo?
«Avrò 75 anni in novembre e mi confronto quotidianamente col pensiero della morte, che è l’unico modo per godere della vita. La mortalità è realtà: nel corpo non c’è permanenza. Vorrei morire senza rabbia, senza paura e mentalmente lucida».
Come ha vissuto la pandemia? Le ha ispirato progetti nuovi? «No, perché è un fenomeno relativo e temporaneo. Non m’interessano l’attualità né le cronache giornalistiche. Io lavoro sulle grandi visioni e su questioni planetarie. In passato un’epidemia di colera durava 15 anni, e noi ora attraversiamo questo problema solo da un anno e mezzo. Ho vissuto questa mondiale battuta d’arresto come una fase di concentrazione e isolamento, finalmente senza viaggi. Ho lavorato molto. Nel ’20, rispettando le regole del lockdown, ho presentato alla Staatsoper di Monaco di Baviera 7 Deaths of Maria Callas . Sognavo da tempo di creare un’opera su Maria, morta per amore come i tragici personaggi che interpretò sulla scena. Lo spettacolo girerà in Europa e sarà anche al San Carlo di Napoli nel maggio del ’21.
Inoltre ho realizzato per Sky Arte un programma di sei ore e mezza sui linguaggi della performing art, coinvolgendo 63 artisti di 31 Paesi».
Sembra che oggi la sua ricerca sia animata soprattutto da elementi mistici e iniziatici.
«Tramite lo studio pluriennale di tecniche e culture (aborigene, tibetane, sciamaniche), ho imparato a lavorare con la materia dell’energia, che è invisibile ma concretissima. Adesso il mio lavoro è pura emozione che voglio trasmettere al pubblico».
https://www.repubblica.it/