Il frontismo non risolverà la crisi  dei  democratici.

di Antonio Macaluso

 

Tu chiamale, se vuoi, emozioni. Non basterà un magistrale verso di Mogol a un Pd in coma farmacologico da troppo tempo. Ma certo è proprio di emozioni che avrebbe bisogno il suo popolo, quel poco che è rimasto fedele a un simbolo vuoto e quello assai più numeroso che una dolorosa diaspora ha portato chi a destra, chi nel M5S, chi al non voto.

Il punto è che emozionare è difficile, esige testa, cuore, gambe. Tre virtù che da molto tempo non riescono a entrare in uno stesso corpo di leader progressista. Abbiamo visto quindi alternarsi alla guida del Pd quelli che si sono poi rilevati — senza offesa — mezzi leader: chi ha avuto cuore e gambe ma poca testa, chi testa e gambe, ma cuore deboluccio e così via. I risultati, del resto, questo ci dicono. Come nello sport, sarà pure che ultimamente il partito ha trovato avversari più forti, più in forma, ma questo non giustifica il calo impietoso di rendimento. Calcisticamente, per dirla con l’ex ministro Carlo Calenda, che paventa ormai il rischio irrilevanza, potremmo parlare non più di serie B ma di zona retrocessione in C. Calenda rilancia dunque l’idea di un Pd che si faccia guida di uno schieramento più largo, che torni a recuperare i pezzi che ha perso a sinistra. Il reggente del partito, Maurizio Martina, invoca un cambio di persone e di idee. Verrebbe da dire: complimenti, ci siete arrivati.

E comunque né la soluzione «frontista», né quella di un cambio di pelle tutto interno al Pd sono semplici. In comune hanno che un leader tutto nuovo e che funzioni va comunque trovato e rapidamente. Ma si sa che i numeri uno non sono quelli costruiti in un’assemblea o in un congresso sulla base di giochi di corrente o convenienze personali. Al contrario, gli organismi collegiali dovrebbero investire leader un uomo o una donna che abbiano già mostrato in modo chiaro e inequivocabile di avere le doti necessarie o che le abbiano ma non del tutto espresse. Matteo Salvini è il capo indiscusso della Lega perché si è imposto — dentro e fuori il partito — come leader. L’investitura ha formalizzato una situazione di fatto. E così dovrà essere per il Pd se vorrà metter fine a giochetti di potere di piccolo cabotaggio.

Ci si interroga oggi, con qualche anno di ritardo, se quella fusione «a freddo» tra ex comunisti e mondo della sinistra cattolica che diede vita all’Ulivo non sia stata un errore o se — buone le intenzioni — ci siano stati errori umani di gestione. Come in un disastro aereo, ci vorrebbe una «scatola nera» che desse delle risposte incontrovertibili. Ma quella scatola non c’è e le testimonianze dei sempre meno sopravvissuti — davvero ne hanno l’animo — sono, come spesso accade, incerte, lacunose e contraddittorie.

In queste ore, in questi giorni è cominciata la sagra delle parole, delle accuse, dei rimpianti, delle buone intenzioni. Ogni tanto sibila qualche idea, ma ci vuole ben altro per dare un segnale forte di vitalità. Ed è assai dubbio che ciò possa avvenire andando a ripescare esperienze frontiste di cui al momento si avverte più il rischio anacronistico di una impaurita trincea che non la costruzione di una snella sinistra moderna. Il rischio è che quel fronte raccolga una buona parte dei reduci e dei fuoriusciti in uno spirito di disperata resistenza. Una linea del Piave buona per giocare con i soldatini, non per affrontare uno schieramento mixato populista-sovranista in una battaglia vera e internazionale.

La via maestra per il rilancio — se mai verrà individuata — appare ancora lontana, ben nascosta, impervia. Né è alle viste — tra i volti di una classe dirigente squalificata da tante sconfitte — l’immagine di un leader operaio che possa appassionare, unire, stupire, perfino. Siamo certi che da qualche parte sia, che già esista — magari senza saperlo — e bisogna solo trovarlo. Forse è un dirigente locale, o solo un «simpatizzante», un giovane, un ragazzo o una ragazza pieni di passione e di idee pulite, con una carica umana che riesca a ricreare emozioni. Emozioni a sinistra. Trovarlo è il compito dei Renzi, dei Martina, degli Orlando e così via. Trovarlo e fargli largo, lanciarlo, accreditarlo. Lasciando da parte, almeno a un passo dal baratro, le loro vanità sconfitte.

 

Fonte: Corriere della Sera, https://www.corriere.it/