Il Cretto di Burri avanza, i restauri no.

hsGetImage-1

di Gian Antonio Stella

Le voragini, le erbacce, i cespugli e gli alberelli che da anni devastano il Cretto di Alberto Burri, il sudario di cemento che copre le macerie di Gibellina e costituisce la più grande opera di Land Art d’Europa, sono ancora lì. Umilianti. Indecorosi. Col corredo, sulle creste dei monti che sovrastano la cittadina distrutta dal sisma, di una selva di pale eoliche. Tirate su senza rispetto per i morti rimasti sepolti sotto le rovine.
Per ricordare il centenario della nascita del grande artista umbro, al quale molti Paesi e su tutti gli Stati Uniti hanno dedicato solenni celebrazioni centrate sul 12 marzo, le autorità siciliane e italiane hanno preferito mettere i soldi sul completamento dell’opera. Cioè sull’aggiunta, nuova di zecca, di quella parte che, venuti a mancare i soldi alla fine degli anni Ottanta, era stata progettata, ma mai costruita. E il restauro della parte esistente abbandonata al degrado? Domani, ci penseranno domani…
Non tentarono neppure, dopo il disastroso terremoto del Belice che la notte fra il 14 e il 15 gennaio 1968 annientò il cuore storico di «Ibbiddina» (in italiano Gibellina, dall’arabo «occhio del monte») e le vicine Salaparuta e Poggioreale e buona parte delle province di Trapani e Palermo, di ricostruire il paese «com’era e dov’era». Troppo gravi, i danni. «Non c’era niente da conservare: solo i valori nostri della solidarietà, della famiglia, del lavoro. Il resto era miseria, isolamento e oppressione», spiegò il sindaco Ludovico Corrao.
Preferirono costruire, lui e le autorità dell’epoca, una new town: Gibellina Nuova. Edificata 25 chilometri più in là, su terreni acquitrinosi appartenuti ai cugini Nino e Ignazio Salvo, col concorso di una selva di artisti e architetti generosi e ricchi di creatività almeno quanto distratti nei confronti dei bisogni quotidiani di chi, strappato alla sua contrada, dopo aver perso magari l’intera famiglia, si ritrovò dentro uno spazio museale e un po’ irreale. Un paese un po’ «pop» tutto esagoni e quadrati e cubi e sfere e triangoli dove nessuno aveva previsto un angolo di verde con la fontanella, un caffè dove i vecchi potessero giocare a carte, una piazza che non assomigliasse alle fantasie di de Chirico: spianate senza un albero e una panchina, gelide d’inverno e torride d’estate, bellissime e inospitali. Il tutto costruito troppo spesso con cemento marcio e acciaio scadente. Al punto che la Chiesa Madre, per esempio, crollò nel 1994, prima ancora di essere inaugurata, ventisei anni dopo la scossa.
Alberto Burri preferì donare agli sfollati un progetto diverso. Quella specie di mantello di cemento che doveva coprire l’intero borgo distrutto. Stendendo un velo su ciò che non c’era più. Un mausoleo che riprendeva nelle fenditure che lo solcavano, larghe due metri e profonde uno e mezzo abbondante, lo schema delle antiche vie. Dove gli abitanti, col groppo in gola, potessero riconoscere qualcosa della loro vita di prima. E immaginare le stradine coi ciottoli, la torretta de «lu turcu», la scalinata, gli asini legati a un albero, il barbiere e il cinema Ariston e la piazza del mercato con le gabbie delle galline.
Era bellissimo, il Grande Cretto del Burri. E c’era chi sperava che, per l’idea e per le dimensioni, potesse diventare non solo la tomba straziante di una umanità colpita in modo così duro, ma anche un luogo di omaggio ai defunti. E alla lunga, medicate dal tempo le ferite del ricordo, perfino un richiamo turistico. Macché. Per anni e anni l’opera d’arte è stata lasciata a se stessa. Non un giardiniere che strappasse le piantine uscite dalle fessure prima che diventassero arbusti o addirittura alberi. Non un muratore che riparasse con la cazzuola le crepe prima che si spalancassero buchi destinati a diventare voragini. Una schifezza. Accompagnata come dicevamo dallo spuntare delle pale eoliche e perfino dall’indecoroso servizio fotografico di un’attricetta trevisana, ridente e seminuda tra i solchi del sacrario.
Da anni l’appello lanciato da un comitato di cittadini trainato da Nicolò Stabile e firmato da Renzo Piano, Arnaldo Pomodoro, Andrea Camilleri, Claudio Abbado e decine di altri intellettuali invocava urgenti restauri. Risultato? Solo la rimozione di un po’ degli alberi più grossi. Fine. Né è servito ad accelerar le cose l’avvicinarsi del centenario di Burri.
La precedenza, dallo scorso settembre, è stata data al completamento dell’opera. Prevista dal Burri su 94 mila metri quadri e realizzata allora solo su 65 mila. Costo: 2.400.000 euro. Fondi europei. E i lavori di rammendo dell’esistente? Ci sarebbe un altro milione abbondante, ha scritto Mariza D’Anna su «La Sicilia», ma tutto è «bloccato per studiare meglio il tipo di restauro». La Soprintendenza di Trapani, ha spiegato il sindaco, «sta ultimando l’iter, è prevista l’eliminazione delle ossidazioni e la sistemazione dei cedimenti». Da una parte le betoniere, i camion e le gru per il nuovo, dall’altra tecnici di mano leggera per il vecchio che un tempo era nuovo. Boh… Inizio dei lavori? Boh…
Per carità: scelte. Ma non è facile spiegare perché, dopo tanta sciatteria e tanto disprezzo per la buona manutenzione, sia stata scelta la strada presa. A meno che tutto non vada ricondotto a un vecchio adagio della cattiva politica siciliana: i problemi non vanno risolti, vanno gestiti…