Il caso Venezia, la bellezza e i rimpianti.

Preferiremmo tutti che la città tornasse al pacato sciabordio delle gondole ma serve una via di mezzo
Come possiamo conservare – e in che misura, con quali strumenti – la nostra identità, linguistica o ambientale che sia? Due interventi pubblicati su questo giornale hanno riproposto il quesito. Alberto Asor Rosa ha polemizzato sul fatto che il ministero preveda la redazione in inglese dei “Progetti di ricerca di rilevante interesse nazionale” (Prin). Lo storico dell’arte Tomaso Montanari ha condiviso l’azione dimostrativa dei no-global nel loro tentativo di smantellare i tornelli che regolano l’afflusso dei turisti a Venezia. Nobili, in entrambi i casi, le motivazioni.

Asor Rosa si chiedeva: “Perché mai i matematici, i fisici, gli ingegneri, i medici, i giuristi, non dovrebbero formulare le loro richieste nella lingua che è loro propria, e cioè appunto, nazionale, come hanno sempre fatto?”. E Montanari: “Al tempo di Tiziano la città, delle stesse dimensioni di quella di oggi, aveva quasi 170.000 abitanti: oggi non si arriva a 50.000. Questo è il problema. E la soluzione è invertire la rotta delle politiche che hanno causato questo esodo di massa”.

Alla richiesta di Asor Rosa hanno risposto domenica scorsa Elena Cattaneo e Roberta D’Alessandro ricordando che “l’inglese dei Prin è solo uno strumento per comunicare, in modo univoco, tra scienziati di Paesi diversi”. A Montanari si può obiettare che la Venezia di Tiziano – anche se più o meno delle stesse dimensioni dell’attuale – ha pochissimo a che vedere con la città (centro storico) di oggi. L’esodo massiccio dei veneziani verso la terraferma non è solo conseguenza di politiche sbagliate o di amministrazioni distratte (o peggio); più aderente ai fatti attribuirlo alla circostanza che non dai tempi di Tiziano ma nel giro degli ultimi decenni tutto è cambiato, a cominciare dalle comunicazioni così lente e difficili nell’area lagunare. Subito dopo – o subito prima – c’è che Venezia è diventata meta turistica su scala mondiale con tutte le conseguenze, positive e negative, che questo ha comportato.

Rimpiango anch’io le solitarie passeggiate al Colosseo di cui scrive Chateaubriand nei suoi Mémoires; o la Venezia silenziosa, dal fascino spettrale, di cui parlano Ruskin, Proust, Thomas Mann. Forse però è preferibile prendere atto che quella Roma e quella Venezia sono state inghiottite dalla modernità. Il che non significa rassegnarsi e consegnare la nobiltà dei luoghi al turismo sbracato e caciarone. Qualche mese fa si polemizzò con giusta asprezza sul restauro della scalinata di piazza di Spagna. L’amministrazione aveva promesso rigida vigilanza sul comportamento dei turisti appollaiati tra la Barcaccia e la chiesa di Trinità dei Monti. Parole al vento, sono tornati i bivacchi e perfino le spaghettate su quei venerandi gradini. Il sindaco veneziano Luigi Brugnaro ha avuto l’idea dei tornelli. Orribili? Orribili. Ma è il tentativo di salvaguardare la stessa sopravvivenza fisica della città, oltre che l’incolumità dei visitatori.

Preferiremmo tutti che Venezia tornasse al pacato sciabordio delle gondole, che le onde sollevate da motoscafi e vaporetti non continuassero la loro sorda opera contro la stabilità delle fondamenta. Tutti vorrebbero poter udire, nel silenzio, il fruscio delle acque nella fontana di piazza di Spagna. Desideri ideali che purtroppo hanno poco a che vedere con la realtà. Secondo l’Ufficio Statistica del Mibact, nel 2017 i visitatori stranieri sono stati più di 50 milioni con incassi che superano i 200 milioni di euro. Nel suo complesso il turismo vale oggi l’11 per cento del Pil.

Come rispondere allora alla domanda iniziale? Sembra ragionevole credere che esista una via di mezzo tra una visione puramente conservatrice, e la resa alle ragioni del turismo, di questo turismo. È il punto sul quale si dovrebbe dibattere non sull’inutile rimpianto per un passato che non tornerà più.