Luigi Di Maio sul predellino del rancore.

Prima o poi doveva succedere. Ed è successo. Imprigionato per due mesi in una grisaglietta nerofumo che gli andava in tutti i sensi troppo stretta, Luigi Di Maio è infine imploso. E con lui l’intera Supernova Pentastellata. Il Movimento doveva essere ineluttabilmente “il centro della politica”, e il suo capo politico inevitabilmente “l’unico candidato pronto alla premiership”. Non è andata così. Il sogno del “governo del cambiamento” è svanito in poco meno di sessanta giorni, buttati via in una funambolica ma schizofrenica alternanza di velleitarismi e doroteismi. Constatato il fallimento, Di Maio celebra dunque il suo rancoroso predellino. E torna al caro vecchio repertorio grillino: l’anatema anti-partito, la spallata anti-sistema.

Sono tutti responsabili, in questo penoso e malmostoso buco nero di ingovernabilità in cui è precipitato il Paese, che frustra e suo malgrado indebolisce persino il presidente della Repubblica. Ma Di Maio è più responsabile degli altri. Prima del voto, aveva fatto una campagna elettorale perfetta. Dopo il voto, forte di quel 32 per cento, aveva molto filo da tessere, ma ci si è imbozzolato dentro e non ne è più uscito fuori. Ora che ha fallito, scopre quello che era chiaro fin dal 5 marzo. Cioè che la legge elettorale “è assurda” perché permette anche a chi perde di rivendicare “pseudo-vittorie in nome di una coalizione di comodo”. E che i Cinque Stelle non hanno ottenuto “la maggioranza assoluta dei seggi” e per questo avevano bisogno di alleanze. L’avesse capito e detto già dal giorno dopo le elezioni, invece di cullarsi tra insensate supponenze e dissennate autosufficienze, oggi non ci troveremmo in questa palude.

Per giustificarla, il leader spaccia agli italiani un suo bugiardo storytelling che miscela malafede e naïveté. La colpa è tutta dei partiti, che pensano solo “al proprio orticello” e ai “loro sporchi interessi”. Non lo sfiora il sospetto che il primo a guardare solo al proprio orto sia stato il M5S. Non lo riguarda l’obbligo di dire quali siano, questi “sporchi interessi”, né chi e perché li coltivi. Poco importa: il mancato “traguardo governista” spinge lui e l’intera nomenklatura pentastellata a una disarmante “regressione populista”. Al voto subito, è il grido di battaglia. Tornare al popolo, cogliere l’attimo fuggente e forse già fuggito, per nascondere qui ed ora l’inquietante tracollo friulano. Per riempire di nuovo il “cuore vuoto” degli attivisti già profondamente arrabbiati e delusi dalla sterile transizione post-elettorale. E soprattutto per consentire ai cittadini di scegliere ancora una volta “tra rivoluzione e restaurazione”.

Di che rivoluzione parla, Di Maio, ormai nessuno lo sa più. La rivoluzione si è smarrita nel vacuo limbo post-ideologico del Movimento, che si illude di impastare lo stesso pane indifferentemente nel forno leghista o in quello piddino, di fatto spegnendoli entrambi perché, a dispetto del cupio dissolvi identitario di questa modernità gassosa, destra e sinistra esistono ancora e riflettono due diverse idee di mondo. La rivoluzione si è perduta nella doppiezza andreottiana del capo, che dopo aver lanciato a Renzi l’ultima offerta in una solenne “lettera aperta” sul Corriere della Sera di domenica, oggi per rabbonire webeti e odiocrati del Sacro Blog dice “un accordo di governo con il Pd era l’ultima cosa che avremmo voluto fare”. La rivoluzione si è dematerializzata nella scatola vuota dei forlaniani “contratti di governo” scritti dall’esimio professor Della Cananea, smerciati come il Koalitionsvertrag alla tedesca (cioè il Patto da 177 pagine sottoscritto in Germania da Cdu e Spd) mentre erano solo patacche all’italiana buone per tutti gli usi, in cui sono spariti reddito di cittadinanza, e abolizione della Fornero.

La rivoluzione si è ridotta alla retorica “gentista” di Fico, che incede a piedi al Colle come nel Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, ma circondato e ben protetto da venti uomini di scorta. Cosa c’è, al termine della notte italiana, è purtroppo evidente. Una legislatura nata morta, e un qualche governo che Mattarella dovrà inventare e che ci porterà al voto in autunno. Un centrosinistra mai nato e tenuto in ostaggio da un ex segretario troppe volte sconfitto, che si rifugia nei suoi miti di riforma costituzionale, che officia i suoi riti negli studi tv di Fazio e che per anni non sarà più alternativa di governo.

E infine la destra, sempre più reale, che spaventa in Italia e in Europa. La destra orbanista e sovranista di Salvini, che nella partita post-voto non ha sbagliato una mossa. Salvini che presidia il territorio e preferisce la presidenza della Regione Friuli a quella del Senato. Salvini che conquista tutto il Nord arricchito e nell’abbraccio dolce ma mortale con Berlusconi svuota lentamente il serbatoio finto-moderato di Forza Italia. Salvini che si candida non a governare oggi (perché al contrario di Di Maio non ha fretta) ma punta a vincere domani. Non più il “giaguaro da smacchiare”. Semmai la “mucca in corridoio”, che il Pd ha visto ma non ha neanche provato a ricacciare nella stalla.

Fonte: La repubblica, www.repubblica.it/