Il capitale umano da salvare

 

Ormai sprofondiamo in tutte le classifiche europee che riguardano i giovani. Eurostat certifica che siamo al 27° posto in Europa per giovani laureati che a distanza di tre anni hanno trovato lavoro. E badate bene, ciò non avviene per il Covid, la situazione era critica già prima. D’altro canto se la Pubblica amministrazione ha smesso di assumere, se non investiamo in ricerca e sviluppo, se non assumiamo in sanità, come possiamo pensare che la situazione possa essere diversa e che si aprano opportunità per i laureati?

Né possiamo meravigliarci che ci collochiamo anche agli ultimi posti per percentuale di laureati a 30-34 anni. L’investimento in formazione in Italia ha garantito una maggiore protezione dei giovani dalla perdita di occupazione, rispetto a quelli con basso titolo di studio durante la crisi precedente, ma non al punto da incentivarne la frequenza universitaria. Se più basse sono le probabilità di inserimento nel mercato del lavoro, minore sarà l’attrattività dell’istruzione terziaria per i giovani.

Il problema è serio, serissimo. E ci sottolinea quanto il nostro Paese non abbia lavorato per valorizzare il capitale umano giovanile e conseguentemente per investire sul futuro. Per operare adeguatamente abbiamo la necessità di capire come sta veramente la situazione dei nostri giovani, non solo laureati. Tre sono i punti fondamentali da considerare. Primo: quanto pesa la collocazione di classe sociale dei trentenni rispetto a quella di origine. Secondo: che cosa sta succedendo dell’andamento dell’occupazione dei giovani da 25 a 34 anni prima e dopo il Covid. Terzo: che cosa è stato fatto contro la povertà dei giovani fino a 34 anni. Come sottolineato dal Rapporto Annuale dell’Istat le variazioni dimensionali delle classi occupazionali sono in gran parte responsabili del fatto che tutte le generazioni nate fino alla fine degli anni ’60 abbiano fatto registrare tassi crescenti di passaggio verso classi di livello superiore rispetto a quelle di origine da parte degli occupati a 30 anni, e tassi declinanti di mobilità in senso discendente

Nell’ultima generazione dal 1972 al 1986, invece, si assiste a una inversione di tendenza con una netta riduzione del tasso di mobilità ascendente. Per i nati tra il 1972 e il 1986 la quota di chi sperimenta una mobilità verso il basso è maggiore di chi sale nella scala sociale ed è tale da superare i livelli registrati da tutte le precedenti. Secondo aspetto, i giovani hanno subito la crisi precedente del 2008-2009 e del 2013 in modo particolarmente accentuato e non hanno mai recuperato i tassi di occupazione pre-crisi. Alla vigilia del Covid stavano ancora sotto il tasso di occupazione del 2008 di 7 punti percentuali. Quelli del Mezzogiorno mantengono trenta punti di differenza da quelli del Nord che pure perdono colpi. Con le donne in difficoltà maggiori. E comunque anche i laureati non hanno recuperato l’occupazione persa in più di 10 anni. La situazione è peggiorata con il Covid. Il calo di occupazione ha coinvolto i giovani e le donne in percentuali molto più alte depauperando il mercato del lavoro. Inoltre, nel 2012 la povertà assoluta è triplicata per i giovani e da allora non è diminuita se non di poco nel 2019.

È ora di investire sul ricambio generazionale del nostro Paese. E questa è una delle scommesse che deve ispirare la ripartenza. Puntiamo sui giovani uomini e donne, investiamo sul futuro. E soprattutto dotiamoci di una strategia creativa, no a vecchie riedizioni di strumenti logorati e mal utilizzati.

 

 

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