“E qualcosa rimane” diceva una vecchia canzone. Cosa resta delle giornate del luglio 2001? Perché ci appaiono remote, forse ancora più lontane nella memoria di quanto non lo siano altre, burrascose giornate della gioventù? Certo il capitolo della contestazione planetaria contro i padroni del mondo concluse bruscamente e in maniera drammatica a Genova la sua breve e intensa stagione. Ed è forse in questo repentino chiudersi di una possibilità affiorata a livello mondiale, nel venire meno della speranza di fare sentire la propria voce e di innescare delle controtendenze, che si può individuare il motivo dell’ambiguità e dell’equivoco della memoria.
In molti abbiamo anche un po’ voluto dimenticare, proviamo una sorta di fastidio, una riluttanza a parlare quando ci vengono richieste testimonianze o interviste sul G8. Eppure nella memoria collettiva le giornate di Genova, rimangono, pesano, continuano a rappresentare uno spartiacque. I più giovani chiedono, vogliono sapere. Ma che cosa accadde veramente?
Non mi interessa qui rivangare la querelle sulle attribuzioni di colpe o recuperare la tardiva testimonianza di qualche poliziotto pentito: tutti elementi che in fondo hanno un’importanza unicamente retrospettiva, materiale grezzo per gli storici di domani. Vorrei provare invece a esprimere qualche valutazione politica, vent’anni dopo.
Il movimento cresciuto a Seattle ha rappresentato la prima istanza di una trasformazione politica a livello globale. Figlio in fondo della stessa globalizzazione che aveva unificato il pianeta sotto il profilo dei traffici e dei commerci, si è andata sviluppando, disegnando, una rapida spirale ascendente che stupiva non poco i militanti e spaventava i padroni del pianeta. Ed era per noi militanti, lungamente e profondamente eurocentrici, un movimento sorprendentemente globale.
Il primo grande movimento di contestazione globale, dotato di una politicità comune, di cui ci parlavano le lotte e gli atteggiamenti, gli obiettivi e le modalità di mobilitazione ricorrenti.
Nel movimento anti-global si delineavano gli elementi di fondo di una nuova prassi consapevole che attraversava il pianeta. Un movimento che certo faticò a trovare una politica adeguata, anche al di là degli eventi genovesi, che pure lo segnarono in maniera decisiva. Non fu solo la violenza poliziesca a concludere il ciclo. Un problema più grande di linguaggi comuni condusse al declino e offuscamento dei movimenti, le voci che giungevano da altri angoli del mondo ci parlavano di situazioni completamente diverse dalla nostra.
Nel frattempo stavano arrivando le guerre post-11 settembre a cambiare completamente gli scenari. Ma, ancora per qualche anno dopo Genova, vivemmo con la convinzione che il movimento non fosse morto. La rivolta in qualche modo continuava, ma era sempre da qualche altra parte. Si profilava il consueto rischio di andare a cercare la rivoluzione altrove, rieditando in chiave un po’ aggiornata quella che i teorici francofortesi chiamavano la Scheinrevolution, il romantico sogno di un’alleanza tra intellighenzia divenuta marginale nei paesi sviluppati e popoli oppressi del terzo mondo.
Il movimento in realtà si arenò anche sugli scogli della modificazione di una prospettiva forzatamente parziale, la nostra; si perse nella ricerca di un passaggio delle “colonne d’Ercole” del pensiero politico eurocentrico. Il progetto di una “provincializzazione” del nostro sguardo implicava un mutamento di paradigmi radicale. Ricordo una bella intervista di quegli anni a una pensatrice come Gayatri Chakravorty Spivak, in cui diveniva quasi palpabile la distanza di alcuni ambiti di pensiero, che pure al movimento si erano strettamente legati, dall’universo più ortodossamente “militante” e organizzativista a cui noi eravamo avvezzi. La Spivak proponeva una visione in cui le prospettive di cambiamento apparivano legate a una scommessa sulla capacità di cultura e politica di mutare lentamente mentalità e rapporti consolidati.
Il quadro complessivo che emergeva dal confronto con le altre realtà, dunque, non era per nulla in ordine. Non solo sotto il profilo della politica, ma anche sotto quello concettuale. Basti pensare alla questione dei “diritti”, che rappresentò una bandiera di alcune componenti del movimento.
Proprio attraverso la questione dei “diritti”, riconsiderata criticamente non solo sotto il profilo della loro deriva (emblematico il caso dei migranti in Europa), ma analizzando le modalità storiche della loro produzione e vigenza, la loro profonda connessione con sistemi sociali al tramonto, emergeva la necessità di una riflessione che privilegiasse il piano dell’universalità. La situazione creatasi poneva con forza il problema dei limiti che il lessico dei diritti impone ai movimenti sociali, dell’inadeguatezza dei “vecchi diritti” in un contesto complessivo così profondamente mutato.
Esiste inoltre anche un’eredità politica che riguarda più nello specifico la dinamica delle tre giornate e la loro gestione da parte del potere, su cui merita di essere spesa qualche considerazione generale: ritengo che nel luglio genovese si siano contrapposti due mondi antipodici. Da una parte, un modello verticale di potere, una volontà di dominio tradizionale, perfino sorprendentemente arcaica in certi suoi aspetti che confondono politica con polizia, che celebrano il dispiegamento di una sovranità che non ha bisogno di legittimazione, che ha materializzato la sua potenza militare svuotando una città, utilizzandola come scenario, rinserrandosi in un Palazzo trasformato in una Versailles improvvisata e impazzita. Dall’altra, un modello orizzontale, una contestazione che non esprimeva un contropotere di tipo classico, ma una serie di istanze di critica, tra loro distinte, a volte caotiche e non sempre congruenti, unite unicamente dall’opposizione a tutto quello che era asserragliato all’interno del fortilizio. Due modelli di potere, uno piramidale e gerarchico, l’altro molteplice e frammentato che potrebbero essere ancor oggi il simbolo del presente del pianeta e di un suo possibile futuro.
Il ricorso alla violenza è stato, a mio avviso, anche un modo per screditare un movimento che osava mettere in questione quello che non deve essere questionabile. Per impedire un’ulteriore crescita era necessario mostrare la protesta nelle forme di un delirio delinquenziale. Centomila persone appagate per avere sfasciato una ventina d’automobili e una manciata di bancomat. Un popolaccio infuriato che saccheggiava e bruciava tutto quello che incontrava sul suo passaggio. Slavoj Žižek ha chiamato “ultrapolitica” questo tentativo di depoliticizzare i conflitti conducendoli all’estremo mediante una diretta militarizzazione del confronto.
Quanto è riuscita nei suoi scopi questa strategia di gestione autoritaria dei conflitti, quanto ha fruttato, nel tempo, il tentativo di marginalizzare i movimenti? L’idea era di ridurli a sporadiche e circoscritte esplosioni locali, da riconsiderarsi in una più vasta prospettiva geopolitica, come accidenti di gestione del sistema da risolversi manu militari, alla stregua di altre manifestazioni altrettanto “irrazionali”, solo più cruente e clamorose.
In apparenza questi obiettivi sembra siano stati raggiunti. I movimenti, dopo l’ultimo grande sforzo comune che si ebbe in occasione delle manifestazioni all’inizio della guerra contro l’Iraq, segnarono in seguito il passo e progressivamente si affievolirono. Ma non è il caso di celebrarne la sconfitta: nonostante l’apparente vittoria della “maniera forte” a livello planetario, rimangono inevase le cause che hanno generato l’ondata dei movimenti di inizio millennio. Il pianeta non è mai parso così fragile e così diviso come oggi. I problemi posti sul piatto a Genova: la distribuzione delle ricchezze a livello planetario, i diritti dei migranti, l’insopportabilità delle conseguenze sociali e ambientali del turbocapitalismo, sono ancora tutti in attesa di una risposta. Per dirla con i bei versi di Anna Achmatova: “Come nel passato matura il futuro / così nel futuro marcisce il passato”.