I numeri ricostruiscono bene il fenomeno. Su 1,7 milioni di studenti universitari, nell’anno accademico 2018/2019 (l’ultimo dato Miur a disposizione), i fuori sede che frequentavano un corso di laurea in una Regione diversa da quella di residenza erano mezzo milione. Un dato in continua crescita dal 2013/2014, quando la quota di studenti emigrati in un’altra Regione era al 24,5%. Mentre quest’anno, così come emerge da un’indagine condotta da Skuola.net, il coronavirus ha innescato “una rimodulazione degli obiettivi degli studenti che cambieranno strategia per limitare i danni prodotti dall’emergenza sanitaria”, come i problemi economici, le difficoltà di spostamento, fino a eventuali seconde ondate di contagi. In media, quasi 2 studenti su 3 immaginano di iscriversi in un ateneo della propria Regione. Un dato che – spiega Skuola.net – al Nord (area geografica che di solito accoglie più studenti di quanti ne lascia partire) supera il 70%. Un altro 10% è ancora indeciso. Mentre solo 1 su 4 ha intenzione di trasferirsi ugualmente, con un picco leggermente più alto (30%) tra gli studenti del Sud, tradizionalmente più inclini all’esodo.

Se fosse così, a settembre si interromperà la tradizionale vita da fuori sede con un effetto economico concreto per le amministrazioni che ospitano gli atenei. Nel caso di Pisa, tra i casi politici più accesi, si tratterebbe di 5 mila neo matricole in meno, dal momento che lo scorso anno sono stati 7 mila gli iscritti al primo anno che risiedevano in una Provincia diversa da quella pisana. Numeri che salgono vertiginosamente nelle altre città universitarie come Bologna (gli iscritti al primo anno fuori sede nel 2018/2019 erano oltre 10 mila), Ferrara (6.102) o Siena dove gli iscritti al primo anno fuori sede rappresentano il 65% del totale. Significa che ci saranno centinaia di appartamenti sfitti e una contrazione dei consumi tra bar, ristoranti e negozi che affosseranno ulteriormente l’economia delle città.

Del resto, tra il blocco dei licenziamenti in scadenza, la cassa integrazione che arriva a singhiozzo e troppe attività che non sono riuscite neanche a riaprire, le famiglie non possono permettersi di sovvenzionare un figlio universitario lontano da casa sostenendo il costo delle tasse universitarie, quello dei libri e soprattutto l’affitto di un immobile in condivisione (spesso in nero) che, tra vitto e alloggio, fa sborsare in media 650 euro al mese. Altre soluzioni non ce ne sono: in Italia l’offerta di residenza per gli studenti fuori sede copre appena l’8% del fabbisogno con 50 mila posto letto, di cui il 40% in Lombardia, Toscana ed Emilia-Romagna. Tutti gli altri devono andare in affitto. Ma ora con l’emergenza coronavirus, le famiglie non possono rischiare di esporsi troppo. Negli scorsi mesi solo una manciata di universitari sono riusciti a trovare un compromesso col proprietario di casa per farsi rimborsare la quota dell’affitto della stanza in cui non hanno più vissuto durante il lockdown. E solo negli scorsi giorni un emendamento al decreto Rilancio ha previsto che una parte del Fondo per il sostegno alle locazioni affitti venga utilizzato per rimborsare gli affitti degli studenti fuori sede con Isee inferiore o uguale a 15 mila euro. Sempre che i contratti siano stati registrati.

L’impoverimento delle famiglie rischia però di abbattersi soprattutto al Sud. Secondo l’ultimo rapporto Svimez – che ha confrontato questa crisi con quella del 2008 – il prossimo anno accademico rischia di registrare un crollo degli iscritti di almeno 10mila di cui circa 6.300 nel Mezzogiorno e 3.200 nel Centro-Nord. Un’ulteriore contrazione che si somma al lento declino registrato negli ultimi 12 anni che ha portato il Mezzogiorno a registrare i tassi di proseguimento scuola-Università più bassi dell’intera area euro. Un allarme che ha spinto diverse Regioni del Sud a intervenire con un contributo per facilitare il rientro degli studenti fuori sede presso le proprie università non facendo pagare la tassa regionale per il diritto allo studio universitario e le tasse universitarie. Una contromossa che potrebbe spingere anche le storiche città universitarie a proporre canoni di locazioni più flessibili o la copertura totale delle borse di studio.