Finisce a Rebibbia l’ultimo viaggio del guru Verdini

Con la condanna in Cassazione di Denis Verdini sembra compiersi l’ultimo atto nella carriera del Gran Consigliori del centrodestra italiano, l’uomo che tenne in piedi per anni la maggioranza di Silvio Berlusconi, fabbricò e distrusse il Patto del Nazareno, giocò la carta di un nuovo centrismo per poi applicarsi al sovranismo e tornare in scena nella veste di suocero-mentore di Matteo Salvini.
Dicono tutti che l’eventuale fase due del Capitano – una riconciliazione europea, la fuga dal gruppo degli impresentabili – fosse appunto appesa a lui, alle sue parole e ai suoi suggerimenti per rendere il leader della Lega di nuovo spendibile come potenziale premier. Ora è nei guai. Forse resterà in prigione, anche se sono più probabili i domiciliari.
Ed è ovvio chiedersi se il verdetto ne fermerà le ambizioni, che dopo gli anni del protagonismo parlamentare si erano fatte più sottili e sotterranee. Probabilmente no. Verdini da sempre è abituato a lavorare a modo suo nelle famiglie che via via si è scelto. Fu il nipote pragmatico e spicciafaccende del Cavaliere, fu lo zio con uso di mondo alla tavola dell’Ncd e il cugino furbo del renzismo: la sentenza non può certo levargli il ruolo di padre della sposa, che esercita da un paio d’anni con malcelato compiacimento ( «Sapete come son fatti i figlioli… Certe disgrazie capitano»). Falco o colomba a seconda delle circostanze, Denis Verdini è un uomo di potere poco interessato alla destra e alla sinistra – le definiva due rubinetti che perdono in un Paese dove è difficile trovare un idraulico – e molto più coinvolto, da sempre, nel gioco delle relazioni trasversali. Impossibile catalogarlo negli schemi abituali della nostra politica: è stato capo dei moderati all’epoca del Nazareno e ultras quando ne decise la rottura dopo l’elezione di Sergio Mattarella; combattente “con le palle vere” (cit. Daniela Santanché) davanti alla prima ondata di inchieste (corruzione, falso bancario, partecipazione alla P3) e loser disperato quando i centristi di Alfano sconfissero il suo tentativo di abbattere Enrico Letta (reagì scoppiando in lacrime, scrivono le cronache).
«Sono disoccupato», diceva negli ultimi tempi ai giornalisti che lo incontravano tra la Camera e il Senato. Non ci credeva nessuno. Dall’inizio della legislatura gli hanno attribuito ogni occulta trama, dalla crisi del Papeete – che avrebbe determinato sperando in Salvini premier e nella promessa di rivedere le norme sulla prescrizione – alla linea morbida di Matteo Renzi verso il Capitano nel voto sul caso Gregoretti in Senato.
Chissà se è vero o se è soltanto frutto della capacità verdiniana di atteggiarsi, sempre e comunque, a burattinaio, problem solver, eminenza grigia, impadronendosi dell’antica definizione di Enrico Mattei sui partiti-taxi fino a descriversi, nei tempi d’oro, come tassista supremo del sistema, «il solo che ti conduce in dieci minuti da Berlusconi a Renzi». E chissà dove lo porterà, adesso, la prossima corsa, chissà se davvero Denis Verdini è arrivato a fine turno come tutto fa pensare: lo è sembrato tante volte ma, visti i precedenti, non ci scommetteremmo.
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