Fatto di plastica

 

Ma il Pianeta si può e si deve curare

 

Non solo tartarughe e capodogli mangiano la plastica. Anche noi umani, in base a uno studio dell’università di Newcastle in Australia, ingeriamo un quarto di chilo di plastica all’anno, l’equivalente di una carta di credito alla settimana. Lo studio, commissionato dal Wwf, chiude finalmente il cerchio delle indagini sull’inquinamento da plastica, combinando i dati raccolti da cinquanta precedenti ricerche e rivelando quali sono gli alimenti in cui la concentrazione di microplastiche è maggiore: sono l’acqua di rubinetto e in bottiglia, il sale, la birra e i frutti di mare. «I risultati segnano un importante passo avanti nella comprensione dell’impatto dell’inquinamento da plastica sugli esseri umani e devono servire da campanello d’allarme per i governi», commenta Marco Lambertini, direttore operativo del Wwf a livello globale. E prosegue: «Si tratta di un problema che può essere risolto solamente affrontando le cause alla radice. Se non si vuole la plastica nel corpo umano, bisogna fermare i milioni di tonnellate di plastica che continuano a essere diffusi nella natura», ammonisce Lambertini.

Gli studi

Dagli anni Sessanta a oggi sono stati prodotti 8,3 miliardi di tonnellate di plastica non biodegradabile e in base a un recente studio dell’Università della California, guidato da Roland Geyer, entro il 2050 questa montagna sarà quadruplicata, arrivando a 34 miliardi di tonnellate. Dal 2010 i big della petrolchimica hanno investito 186 miliardi di dollari in 318 nuovi stabilimenti, che porteranno a un aumento della produzione annuale di plastica da fonti fossili del 40 per cento. Di questa enorme massa, solo il 9 per cento è stato riciclato e il 12 per cento bruciato nei termovalorizzatori, mentre il 79 per cento è disperso nell’ambiente. Nello studio – il più completo identikit sulla storia di questo materiale – si stima che metà dei 350 milioni di tonnellate di plastica prodotti ogni anno diventa rifiuto dopo un uso che dura da 20 minuti a 1 anno.

Applicazioni

Il nostro Paese non fa eccezione. Con 7,2 milioni di tonnellate di articoli di plastica sfornati nel 2018 l’Italia è il secondo produttore in Europa dopo la Germania. Di questi, 2,2 milioni di tonnellate sono imballaggi, gli unici articoli presi in carico dalla raccolta differenziata, che ne ha intercettati poco più della metà, oltre 1,2 milioni di tonnellate. Il resto è finito nell’indifferenziata e quindi in un termovalorizzatore oppure in discarica, se non è stato dato alle fiamme a cielo aperto, come accade ormai quasi ogni giorno nei depositi che straboccano. «In Italia c’è carenza di impianti, per cui il prezzo del conferimento alle discariche e ai termovalorizzatori è triplicato negli ultimi anni, creando un forte disincentivo per gli operatori a farsi carico di questi costi. Ecco perché i rifiuti vanno a fuoco, è un modo più economico per disfarsene», spiega Antonio Ciotti, presidente del Corepla, il consorzio che tratta gli imballaggi di plastica. L’anno scorso il consorzio ha avviato a riciclo oltre 640mila tonnellate di imballaggi di plastica, quasi un decimo di tutti i materiali di plastica prodotti in Italia. «Il riutilizzo della plastica esistente è l’unico modo per arrivare un giorno a ridurre la produzione di plastica vergine, ma il sistema va affinato, per far diventare la plastica riciclata più competitiva, e ampliato anche ad altri prodotti oltre agli imballaggi, come i contenitori di plastica o i giocattoli», ammonisce Ciotti.

Economia circolare

In questo senso stanno lavorando un po’ tutti gli attori della filiera, spinti anche dalle normative sempre più stringenti, soprattutto in Europa. Oltre 400 colossi che contribuiscono all’epidemia hanno firmato l’impegno globale per un’economia circolare della plastica, promosso dalla fondazione Ellen MacArthur e dal programma delle Nazioni Unite per l’ambiente.

Tra i firmatari ci sono le aziende responsabili del 20 per cento di tutti gli imballaggi di plastica a livello mondiale, come Danone, Mars, Unilever, Coca Cola, PepsiCo, H&M, L’Oreal, insieme a specialisti nella gestione delle risorse come Veolia e produttori di materie plastiche, come Borealis e il campione italiano delle bioplastiche Novamont. L’obiettivo è disaccoppiare la produzione di plastica dalle fonti fossili, in primis eliminando i consumi inutili e per il resto usando solo la plastica già prodotta fino a oggi e riciclata oppure materiali biodegradabili.

Riprogettare

Da qui la corsa alla riprogettazione dell’intera filiera, per aprire le porte ad alternative alla plastica fossile e a nuovi materiali bio da affiancare a elementi tradizionali perfettamente validi, come la carta, il vetro o l’alluminio, specialmente negli imballaggi. I materiali organici derivati da piante o animali non sono una novità nella storia, ma ora il punto è ottenere caratteristiche di stabilità, robustezza e flessibilità analoghe a quelle della plastica fossile con i polimeri naturali come la lignina, la cellulosa, la pectina e la chitina che, a differenza dei polimeri sintetici, si biodegradano molto rapidamente. Con il suo Mater-Bi, la madre di tutte le bioplastiche, Novamont offre ad esempio soluzioni valide per la spesa con i suoi sacchetti, per l’agricoltura con la pacciamatura biodegradabile, per il settore alimentare con piatti, bicchieri, posate e contenitori, per la raccolta della frazione organica, per gli imballaggi e per altre applicazioni, dai biofiller per l’automotive ai prodotti per l’igiene personale e la cosmetica.

La principale molecola impiegata dall’industria della bioplastica, anche da Novamont, è stata per anni l’amido, un polisaccaride contenuto nel riso, mais, grano, patate e manioca. La bioplastica da amido può essere facilmente compostata a livello industriale e si degrada più velocemente dei polimeri fossili, ma ci sono molte altre fibre, anche di scarto e quindi non in competizione con le coltivazioni alimentari, da cui è possibile produrre materiali termoplastici.

Fibre

Un esempio è la cutina, un bio-poliestere ceroso che si trova nella cuticola delle piante, ricavato anche dalla buccia dei pomodori. Un altro caso sono le fibre ottenute dai funghi: il recente sviluppo dei miceli per produrre strutture relativamente robuste si sta facendo strada in settori come quello degli imballaggi o dell’isolamento edilizio. Oltre ai biopolimeri vegetali cresce anche l’utilizzo dei polimeri ottenuti dalle proteine animali come cheratina, fibroina, caseina: in alternativa ai tessuti sintetici si stanno sperimentando soluzioni come il QMilch, seta ottenuta dalle fibre di latte. Il chitosano, ottenuto dalla chitina, presente nell’esoscheletro di insetti e crostacei, è un polisaccaride estratto principalmente dai gusci di scarto di aragoste, granchi e gamberi. Il nuovo biomateriale possiede eccellenti proprietà adesive resistenti all’acqua, oltre a un’elevata stabilità meccanica. In forma di nanofibre, il chitosano è già stato utilizzato per formare rivestimenti isolanti da acqua e oli oppure materiali adatti per gli imballaggi, ma per ora siamo ancora a livello sperimentale.

@elencomelli