”Erano i capei d’oro all’aura sparsi”

 

[20:04, 4/10/2020] PASQUALINI Auro: ‘Erano i capei d’oro a l’aura sparsi”
di Antonio Prete

…Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.
‘’Erano i capei d’oro a l’aura sparsi’’. Il verso, molto noto, apre il sonetto XC del Canzoniere di Petrarca. Un sigillo e quasi un’impresa della poesia petrarchesca: il verbo sdrucciolo d’avvio – erano – che dispone l’immagine in un tempo imperfetto, allontanando quel che è rappresentato; la figura che subito riempie la scena non con tutto il suo corpo ma solo con il movimento e il colore dei capelli; l’oro che designa la luce secondo un modo dell’arte figurativa che dai bizantini giunge al gotico di Simone Martini e andrà verso Botticelli, via via profanizzandosi nella biondità dei capelli. E ancora, la presenza di un vento leggero che non nominato sottrae la rappresentazione alla sua fissità iconografica consegnandola a un movimento del corpo. Infine la pronuncia del nome di lei, Laura, affidata al giuoco della lettera, all’omofonia (l’aura) che è anche un senhal, un timbro proprio che definisce la figura, ed evoca insieme vento e luce. …
L’aura e la donna (sulla prima sillaba del suo nome cade uno degli accenti dell’endecasillabo) sono la stessa cosa. In questa congiunzione del volto con gli elementi naturali si esalta l’apparizione, l’inatteso dell’apparizione, ma anche la condizione celestiale, oltreumana, di quell’apparizione, che le due terzine del sonetto poi descriveranno nei particolari. Ma sulla luce dell’apparizione l’ultimo verso della quartina ha già sovrapposto l’ombra del passaggio, del tempo che trascorre, della bellezza che declina (“di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi”).
Tutto il Canzoniere, del resto, si svolge secondo questo dialogo della luce e dell’ombra, che è anzitutto un dialogo temporale tra l’apparizione, da una parte, che genera turbamento, sogno, desiderio, contemplazione, e la sparizione, dall’altra parte, che genera un’interrogazione amarissima sul passaggio, sulla vanitas, sulla cenere. E nel cuore della stessa meditazione, tuttavia, ecco prender forma il nuovo tempo che l’atto del ricordare edifica, un tempo – il tempo della poesia – che si riempie di immagini, di movenze, di gesti, di sguardi, ravvivando un sentire sottratto all’oblio. Qui, in questi versi, questo dialogo si modula nel rapporto tra la luce dell’apparizione e il tempo sopravvenuto che ha attenuato quella luce e forse incrinato quella fulgida bellezza…
Nel sonetto di Petrarca il movimento della figura, il suono delle parole, e la luce che accompagna l’incedere (il “vivo sole” riporta con evidenza la figurazione cosmologica) appartengono a una celestialità che comunque rinvia al tempo dell’apparizione (“fu quel ch’ ’i vidi”), un tempo già stato. Tuttavia il tempo trascorso, quand’anche avesse attenuato quella luce, non può rimarginare la ferita apertasi con la luminosa apparizione. L’amore, anche nella distanza temporale dalla visione, persiste. In Petrarca gli elementi “angelici” e la luce della perfezione si espongono al declino, e però questo passaggio non cancella la sofferenza per la loro assenza. Leopardi, nel suo commento alle Rime del Petrarca, sempre sobrio ed essenziale, per gli ultimi due versi di questo sonetto così parafrasa : “E posto che Laura oggi, per età, ovvero per malattia, non sia più quale io la vidi allora, non segue perciò che l’amor che io le presi in quella occasione, debba oggidì essere spento, perocché lo allentare dell’arco non salda la piaga che esso arco avrà fatta”. Non è eterna la bellezza, quel che resiste è la ferita.
( Antonio Prete, da DOPPIOZERO )