Bordieu e quei conti in sospeso con la filosofia

Pierre Bourdieu potrebbe essere visto come una sorta di «ultimo classico» della sociologia. A suscitare tale impressione, al di là della diffusione e dell’influenza della sua opera, è la cifra del suo approccio, fatto di risoluta rivendicazione dell’appartenenza disciplinare, ambizione alla scientificità, fedeltà a una prospettiva sistematica, incentrata sull’esigenza di tenere insieme nell’analisi le strutture e le disposizioni degli attori, superando la scissione fra gli indirizzi «oggettivisti» e «soggettivisti».

LA SOCIOLOGIA, per Bourdieu era «uno sport di combattimento», che implicava un corpo a corpo con gli oggetti da analizzare, per cogliere al di là delle contingenze, i meccanismi di riproduzione delle strutture di dominio. Ma il combattimento il sociologo lo doveva esercitare anche su se stesso, per sottoporre a critica il proprio sguardo, per coglierne le condizioni sociali di produzione. Nel suo specifico, tale corpo a corpo aveva a che fare in particolare con la filosofia, manifestazione per eccellenza di quella che Bourdieu definiva «ragione scolastica», incentrata sul presupposto di un soggetto della conoscenza libero da ogni vincolo e votato disinteressatamente alla conoscenza. Tale conflitto ha rappresentato per Bourdieu non il confronto con un ambito estraneo, quanto una costante pratica di riflessività, per «mettere sotto tutela» il filosofo che era in lui in forza della formazione ricevuta.

I CONTI IN SOSPESO con la filosofia si collocano alla base di uno strano paradosso. La sociologia bourdieusiana si dispiega all’insegna di un modello teorico assolutamente riconoscibile, incentrato sui concetti di capitale (colto in termini multidimensionali), habitus (inteso come complesso delle disposizioni interiorizzate dagli attori in forza della loro formazione) e campo (la pluralità degli ambiti di azione retti da uno «spazio relazionale delle posizioni» e da specifici criteri di valutazione dei capitali). Ciò nonostante, Bourdieu ha sempre manifestato un’ostinata reticenza a esporre in termini sistematici la sua metodologia analitica, esplicitando le proprie prese di posizione di carattere più teorico in luoghi testuali marginali, quasi clandestini, come note a piè di pagina, appendici, introduzioni a testi altrui. E ciò non per indifferenza delle questioni teoriche ma per la convinzione che, per sfuggire il punto di vista scolastico, le si dovesse sviluppare non in termini generali e astratti ma in corpore vili, nel confronto diretto con il materiale «basso» dell’empiria, nella ricerca su aspetti quanto più circoscritti.

A PARTIRE DA CIÒ, risulta chiaro l’interesse che riveste la pubblicazione dei corsi tenuti da Bourdieu al Collège de France, negli anni che vanno dal 1981 al 1986, sotto il titolo di Sociologie générale, di cui è stato tradotto in Italia il primo volume, a cura di Gianvito Brindisi e Gabriella Paolucci, con il titolo La logica della ricerca sociale. Sociologia generale 1 (Mimesis, pp. 304, euro 22). Chi si aspetta un’ordinata esposizione manualistica, però, resterà deluso. Non è un caso che Bourdieu abbia affidato alla forma del corso il tentativo di esposizione sistematica delle linee teoriche del suo approccio alla ricerca sociale. Ancorata alla dimensione dell’insegnamento, al feedback con il pubblico, infatti, l’esposizione dei concetti procede in maniera circolare, digressiva, intercalata dal riferimento a specifiche ricerche, a dilemmi didattici, a problematiche politiche. In particolare, il primo volume si sofferma sulla questione della classificazione. Il discorso si sposta poi sull’habitus, un concetto chiave della sociologia bourdieusiana, a cui è affidata la funzione di articolare la dimensione oggettiva delle strutture di dominio con la loro riproduzione attraverso le pratiche degli attori sociali.

PUNTO DI PARTENZA del corso è una riflessione sul posizionamento particolare della sociologia, rispetto ad altre scienze, in quanto legata alla classificazione di esseri che classificano, le cui classificazioni non possono essere ignorate, assumendo una postura oggettivista, in base alla quale, al di là delle rappresentazioni degli agenti, a risultare decisiva sarebbe la logica di strutture anonime. Ma nemmeno possono essere assunte come livello esclusivo dell’analisi. Bourdieu insiste sul doppio regime, constatativo e performativo, che caratterizza le classificazioni. Nelle sue parole, «bisogna classificare per vivere». Le classificazioni, tuttavia, non si limitano a descrivere la realtà ma possono anche modellarla, attraverso il meccanismo della «profezia che si auto-avvera».

Si tratta di un tema che, in sociologia, rimanda soprattutto alla questione delle classi sociali, ai possibili criteri per identificarle ma, in termini, performativi, alla funzione politica svolta dalle diverse tassonomie una volta che vengono fatte proprie dagli attori sociali. In proposito, con lessico hegeliano, Marx parlava della classe in sé o per sé. La capacità di una classificazione di imporsi nella «lotta per la rappresentazione legittima della realtà» dipende non tanto dalle qualità descrittive che manifesta quanto dal suo luogo di enunciazione, dal potere simbolico che quell’istanza possiede. E ciò vale sul piano delle dinamiche sociali e politiche ma anche su quello scientifico-analitico, al di là di qualsiasi pretesa di neutralità e tecnicità dei saperi. Per Bourdieu, infatti, con la formula utilizzata in una di queste lezioni, «quando si fa sociologia si fa sempre politica, anche se non se ne è consapevoli».

 

il manifesto ilmanifesto.it