Oltre destra e sinistra Il successo di chi rifiuta gli schemi del passato.

Tendenze Formazioni come la Lega e il M5S sfruttano il declino di categorie a cui il Pd rimane ancora legato.

C’è un’arma nelle mani del populismo di fronte alla quale quelle dei suoi avversari risultano spuntate. È il rifiuto della politica così com’è oggi conformata. Le critiche apparentemente inoppugnabili rivolte all’impostazione antipolitica dei populisti vanno a sbattere contro un muro, perché non regge più, in quanto obsoleto, l’intero armamentario (dall’organizzazione territoriale all’insediamento sociale, dalla militanza degli attivisti all’identità ideologica) su cui si è fondata la politica nella lunga stagione dei partiti di massa. Prima ancora delle strutture sono comunque gli apparati cognitivi, i criteri di giudizio, le categorie interpretative di cui intere generazioni si sono servite per orientarsi nella sfera pubblica a non funzionare più. In primis, le idee di destra e sinistra che pure sono il pane stesso della politica.

Nulla più di queste categorie spaziali, grazie al loro carattere immediatamente intuitivo, è in grado di semplificare la complessità della politica alla diade di amico/nemico. Proprio per il loro carattere intuitivo esse si sono rivelate espedienti linguistici di facile trasferimento nel linguaggio astratto della politica.

La fortuna di destra e sinistra non è dipesa solo dalla capacità di penetrare nell’opacità del reale fino a renderlo comprensibile a tutti. Esse hanno reso un prezioso servizio anche nel fornire ai cittadini modelli valoriali con cui conferire un senso all’agire collettivo. Da ultimo, hanno assegnato agli attori identità così forti da permettere loro di riprodurle nel tempo e nello spazio oltre ogni specificazione storica. Si tratta di identità dotate di un così alto grado di autoreferenzialità da assorbire anche le più dure repliche della storia. Lo si è ben visto nel caso del comunismo e, in parte, del fascismo: declinazioni di sinistra e di destra che hanno continuato a trovare schiere di fedeli nonostante, e oltre, i loro fallimenti. Si tratta, insomma, di categorie dalle virtù quanto mai preziose per l’esercizio della difficile arte della politica, soprattutto quando questa si allarga a platee più ampie, bisognose come sono di risorse simboliche immediatamente espressive. È il motivo della loro perenne vitalità, nonostante abbiano conosciuto nel tempo traumatiche rotture di continuità.

Destra e sinistra non sono fatti, ma stati della mente. Non contrassegnano comportamenti, ma orientamenti. Non si misurano col metro delle realizzazioni, ma con quello delle intenzioni. Sono perciò indipendenti dal concreto dispiegarsi degli avvenimenti, almeno fino a quando riescono a trovare una coerenza — vera o solo immaginata che sia — tra attese e risultati. Ad una condizione, però: che riescano in qualche modo a garantire una congruenza tra l’interpretazione che offrono del reale e l’effettiva esperienza che i cittadini ne fanno. In quanto metafore spaziali, destra e sinistra sono metastoriche, al contrario delle loro declinazioni storiche che riflettono necessariamente la configurazione assunta dal conflitto in base alla frattura politica dominante in quella particolare stagione.

Ci sono stati tempi in cui le due categorie hanno espresso diverse opposizioni: tra progresso e conservazione, tra borghesia e proletariato, tra interventisti e non interventisti, tra fascismo e antifascismo, tra comunismo e anticomunismo. È nei momenti di passaggio da una frattura a un’altra che si crea una stridente frizione tra le idee di destra e sinistra sedimentatesi nella stagione precedente e le nuove esperienze dai cittadini. Veniamo con ciò al presente.

È almeno da un quarto di secolo che si è diffusa la convinzione della loro irrilevanza. Ne ha preso atto in Europa Emmanuel Macron, che ne ha fatto la carta vincente della sua scalata all’Eliseo. Da noi rifiutano di riconoscersi in questo schema binario sia la Lega che il M5s. Persino tra le file della sinistra, la parte politica più gelosa della sua identità, si cominciano a sentire voci di aperto scetticismo sulla loro attualità. «Dirsi di destra e di sinistra oggigiorno è anacronistico», ha dichiarato Angela Marcianò della segreteria Pd. Ancor più impegnativa, per la personalità che l’ha espressa, è stata la presa di posizione di Romano Prodi: «La dialettica oggi non è più tra destra e sinistra, ma tra apertura e chiusura verso il mondo globale, non tra borghesia e proletariato, ma tra ceti urbani acculturati e periferie subculturali». Del superamento delle vecchie idee di destra e di sinistra si stanno invece avvantaggiando le formazioni che si ispirano al populismo.

Col tramonto delle grandi concentrazioni di fabbrica, che fungevano da capisaldi materiali e simbolici delle antiche identità sociali e politiche, sono emerse questioni immateriali, come la sicurezza, il rifiuto dei partiti, la richiesta di partecipazione, la difesa delle identità locali e culturali. Tutte questioni che faticano ad iscriversi nel tradizionale tracciato di valori e di interessi definito dalla destra e dalla sinistra. C’è quindi il problema di raccordare queste categorie della politica alla nuova logica del conflitto imposta dalla globalizzazione. Compito non facile, perché le identità sono tetragone al cambiamento. Ciò vale soprattutto per la sinistra, forte di un’idea di sé salda nel tempo. Meno nel caso della destra, per l’essere, questa, prigioniera di un passato imbarazzante, il fascismo, che la rende disponibile a cogliere ogni occasione propizia per dichiarare decaduta la distinzione tra destra e sinistra e strumentale la sua riproposizione.

Il maggior imbarazzo è tradito da quella parte della sinistra che più si è impegnata a rottamare il passato. L’esigenza di accordarsi con gli orientamenti prevalenti nell’elettorato sta inducendo il Pd a travalicare il vecchio tracciato. Al tempo stesso, non volendo perdere il suo popolo, il partito di Matteo Renzi si vede costretto a riproporre simboli e miti fondativi della sua identità, linfa vitale della militanza dei suoi affiliati.

La contraddizione in cui il Pd si dibatte è emersa in tutta evidenza negli ultimi tempi. Il suo segretario ha deciso di effettuare una virata sul tema cruciale dell’immigrazione: virata divenuta ben visibile nelle scelte adottate in materia dal ministro dell’Interno Marco Minniti. Non ha avuto paura Renzi, a sostenere che «l’idea di mettere un numero oltre il quale non possiamo più accogliere è un principio di buon senso, non di destra». Ha dovuto, però, correre ai ripari per allontanare da sé l’accusa di emulare la destra. Si è così proposto a fautore dello ius soli , causa cara alla sinistra. Non solo. Per mano dell’onorevole Fiano si è affrettato a presentare un disegno di legge volto ad estendere e inasprire le pene previste per il reato di apologia del fascismo con l’evidente intento di collegarsi ai sentimenti profondi dell’elettorato di sinistra, la cui identità si nutre notoriamente della contrapposizione fascismo/antifascismo.

Come si vede, lo schema binario di destra e sinistra tracciato dalle fratture della società di prima industrializzazione si conferma la camicia di forza che immobilizza i partiti legati a quella stagione, a tutto vantaggio di chi quelle categorie le ha invece consegnate alla storia.

 

Domenica 5 Novembre 2017 La Lettura.

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