Se dovessi fare i nomi di coloro che più di tutti han lavorato, nell’Italia del secondo Novecento, per tener saldi e vivi i rapporti tra le pietre e il popolo, uno dei primissimi a fiorirmi sulle labbra sarebbe quello di Andrea Emiliani (1931-2019): storico dell’arte, soprintendente, fondatore dell’Istituto dei Beni Culturali dell’Emilia-Romagna. Proprio oggi a Bologna gli si rende pubblico omaggio, in una giornata nell’aula magna dell’Accademia di Belle Arti che apre le celebrazioni che l’intera regione intende dedicargli a un anno dalla scomparsa. La prima volta che incontrai Emiliani fu all’inizio degli anni Novanta, alla Scuola Normale dove ero studente. Alla fine del suo secondo seminario sui “beni culturali”, trovai il coraggio di domandargli cosa pensasse della diffusione, che pareva allora inarrestabile, dei corsi di laurea appunto in beni culturali. La risposta di quel famoso soprintendente fu assai poco paludata: mi guardò sorridendo, e disse, con la sua aria sorniona, “sono una truffa”. Era una verità che nessuno aveva il coraggio di dire: e con quell’uscita Emiliani si guadagnò il rispetto di un’altra generazione di storici dell’arte.

Emiliani era venuto a parlarci del suo modo di fare storia dell’arte: “Vivere l’opera d’arte del passato nell’osservazione critica dell’attualità”. La conoscenza capillare del territorio dell’Emilia-Romagna lo aveva spinto a cogliere sempre quella che chiamava “la forte simultaneità di apparizione” del patrimonio. Non, dunque, la lettura della successione temporale degli stili, come in un manuale ordinato, ma la concretizzazione, e dunque la stratificazione, della storia in una porzione di territorio. La geografia come storia, potremmo dire: lo spazio al posto del tempo.

E questo spazio dell’arte e della storia, per Emiliani era lo stesso spazio della democrazia, della comunità quando ha voluto spiegare, in questi ultimi anni, il significato del titolo – geniale e drammatico, visto da oggi – di un suo celebre libro “pubblicato alla macchia nel 1970”, e cioè La conservazione come pubblico servizio, Emiliani ha detto che si riferiva “al valore per me centrale della pubblica proprietà etica e politica di tutto ciò che si condensava in patrimonio”. Il patrimonio, insomma, come luogo in cui la collettività riconosce se stessa e si autogoverna: era qua la ragione dell’intesa, così profonda, con l’urbanista Pier Luigi Cervellati sull’importanza cruciale dei centri storici. La città storica come patrimonio vivente: pietre antiche per una società nuova. L’arte – sono parole di Emiliani – come “costruzione civile, e propizia alla comunità”.

Con un crudele paradosso, il più luminoso successo di Emiliani coincide con una sconfitta che egli ha fatto in tempo a vedere, commentare e soprattutto soffrire. Nessuno quanto lui, in Italia, era riuscito a dare un senso positivo, costruttivo, potenzialmente carico di futuro, a quel rapporto tra Stato e regioni che la Costituzione aveva lasciato irrisolto. La fondazione dell’Istituto per i Beni Culturali dell’Emilia-Romagna è stato il culmine di una straordinaria pratica di catalogazione, conoscenza e conservazione delle opere d’arte della regione.

Mentre in tutta Italia le regioni chiedevano autonomia per abbassare le tutele del loro patrimonio culturale, visto come un pozzo petrolifero da trivellare, la sola Emilia-Romagna dimostrava che si doveva e si poteva chiedere e ottenere autonomia per fare più tutela, e per farla con i cittadini e non contro di essi. Perché – e sono ispiratissime parole di Emiliani – “la testimonianza artistica custodita, ad esempio, in una chiesa delle foreste casentinesi in Romagna, non sarà mai tutelata dallo Stato, ma dalla comunità locale, se consapevole della propria identità culturale che in quelle opere si specchia”. Non c’era, in tutto questo, il minimo senso non dico di lontananza, ma nemmeno di minor amore, per l’idea di nazione: per tutta la vita Andrea Emiliani è rimasto quello che dalla finestra vedeva Raffaello, secondo il bel titolo dello struggente libro che suo fratello Vittorio Emiliani gli ha appena dedicato. Ne vedeva letteralmente il monumento dalla finestra di casa nella decisiva giovinezza ad Urbino, e ne tenne poi sempre presente l’altissimo magistero contenuto in quella lettera a Leone X del 1519 in cui l’artista per la prima volta metteva in esplicita e programmatica relazione il patrimonio culturale e la costruzione dell’identità italiana. E però, dicevamo, Emiliani ha fatto in tempo a vedere il duplice scempio di questo illuminato modello di tutela regionale: da una parte attraverso la riforma Franceschini, che ha pasticciato in modo irriconoscibile il governo del patrimonio culturale emiliano-romagnolo (Emiliani, pur assai misurato, definì pubblicamente questo assetto “da dementi”), dall’altra attraverso il decollo dell’autonomia differenziata (e siamo alla triste cronaca dei nostri giorni) che vede l’Emilia-Romagna di Bonaccini in condizione di sudditanza culturale e politica rispetto al disegno leghista della “secessione dei ricchi” dal resto dell’Italia. Tutto il contrario di ciò che, per lungo una vita, ha costruito Emiliani. “La sola, vera valorizzazione è la conoscenza critica”, ha scritto nel 2015: con parole che valgono come un testamento spirituale. Una bussola, una dichiarazione di intenti, un programma politico: per quella “politica dei beni culturali” che Andrea Emiliani, storico vero e uomo dello Stato fino in fondo, è stato uno dei pochi ad attuare.