Dopo la Brexit, il Regno Unito a rischio implosione?

La recente vittoria elettorale di Sinn Féin in Irlanda del Nord getta un’ombra sia sui complicati accordi della Gran Bretagna con l’Unione europea, sia sulla tenuta dei sempre difficili rapporti tra unionisti protestanti e nazionalisti cattolici. E poi c’è la questione scozzese

La Brexit non finisce di creare problemi alla Gran Bretagna. Ed è oggi la protagonista dello scenario politico uscito dalle elezioni amministrative dello scorso 5 maggio, dove – in un contesto che ha visto vittoriosi i laburisti e in forte calo i conservatori – a vincere sono state quelle forze insofferenti nei confronti del governo centrale, che aveva sponsorizzato l’uscita dall’Unione europea. Se, da un lato, nel Galles, dove il dissenso nei confronti dell’uscita dall’Unione è stato minimo, i conservatori sono comunque quasi scomparsi, dall’altro, sono stati gli indipendentisti ad avere la meglio in Scozia e in Irlanda del Nord.

Il dato più clamoroso riguarda la gestione di quest’ultima tormentata area del Regno, che ha visto per decenni un conflitto duro e sanguinoso tra cattolici e protestanti, con oltre 3500 morti in circa trent’anni. A Belfast si è affermato, clamorosamente, il Sinn Féin di Michelle O’Neill: partito nazionalista, cattolico e socialista, durante il conflitto vicino all’Ira (Irish Repubblican Army), con il 29% dei voti contro il 21,3% degli unionisti protestanti del Dup (Partito democratico unionista) di Jeffrey Donaldson, legati a Londra.

I problemi che scaturiscono da questo risultato elettorale sono due: il primo è l’intenzione, da parte dei cattolici, di unificare l’Irlanda attraverso un referendum. Un’avventura, un obiettivo ambizioso, per il Sinn Féin, che preoccupa ovviamente gli unionisti, per i quali si tratta di “una sfida diretta ai principi che hanno sostenuto ogni accordo raggiunto in Irlanda del Nord negli ultimi venticinque anni”, e che tuttavia avrà tempi lunghi e complicati. Ma nell’immediato Londra e l’Unione europea devono risolvere il problema del Protocollo dell’Irlanda del Nord, che regola il commercio post-Brexit nella regione. Una normativa burocratica per addolcire uno dei tanti frutti velenosi prodotti dall’uscita di Londra da Bruxelles.

Ricordiamo le tappe di questo percorso a ostacoli. Il 3 febbraio scorso, dunque a tre mesi dal voto, il primo ministro dell’Irlanda del Nord, Paul Givan, rappresentante del Dup, rassegna le dimissioni. Motivo: i controlli e le pratiche introdotti, dopo la Brexit, per le merci in arrivo dal resto del Regno Unito in Irlanda del Nord, la quale è rimasta all’interno del mercato unico e dell’unione doganale europea. Oggi i controlli doganali vengono effettuati a bordo delle navi e degli aerei che, dal Regno Unito, sono diretti verso qualsiasi punto dell’isola d’Irlanda, compresa l’Irlanda del Nord. Una prassi condivisa dal premier britannico Boris Johnson, che ha danneggiato però l’economia nordirlandese.

A quel punto, la decisione del ministro dell’Agricoltura di Belfast, Edwin Poots, di sospendere unilateralmente alcuni di questi controlli, che invece, secondo l’Unione europea, devono rimanere in vigore. Un braccio di ferro che ha portato alle dimissioni di Givan. Il 10 maggio, cinque giorni dopo la vittoria di Sinn Féin, il ministro degli Esteri britannico, Liz Truss, ha preparato una legge che dovrebbe abolire i controlli doganali alla frontiera marittima, che hanno aumentato di un quarto i costi delle aziende nordirlandesiDunque una violazione della intesa.

Lo spostamento dei controlli in mare è stato deciso perché un ripristino degli stessi, al confine tra Belfast e Dublino, avrebbe violato gli Accordi del venerdì santo del 1998, che avevano messo fine al confine doganale tra Belfast e Dublino, e abolito le frontiere unificando di fatto l’Irlanda, sia pure soltanto sul fronte degli scambi commerciali. Ma lo spostamento dei controlli sulle coste del Mar d’Irlanda sarebbe insostenibile per il Dup, perché romperebbe la continuità territoriale con il Regno Unito. Insomma un rompicapo.

Già maldisposti ad accettare la vittoria dei repubblicani, gli unionisti hanno così minacciato di non nominare un “oratore”, ovvero il presidente dell’Assemblea, passaggio prioritario per la formazione di un nuovo esecutivo, fino a quando non sarà sciolto questo complicato nodo, e dunque rendendo probabilmente necessaria una nuova tornata elettorale. L’idea sofferta – di abolire questi confini marittimi – è stata accolta con inquietudine anche da rappresentanti del governo conservatore di Londra, che temono una guerra commerciale con l’Europa. Potrebbero arrivare, infatti, nuovi dazi da Bruxelles, in un contesto in cui, causa guerra, la recessione è dietro l’angolo. Per questo le perplessità non mancano, a partire da quelle del cancelliere dello scacchiere, Rishi Sunak, che come altri teme le conseguenze di uno strappo unilaterale.

Preoccupazioni arrivano anche dall’opposizione. Per la ministra del Lavoro ombra, la laburista Jenny Chapman, “invece di negoziare soluzioni pratiche a beneficio delle imprese e delle comunità, il governo prevede di rompere l’accordo che esso stesso ha negoziato e spacciato al pubblico britannico”. Nella stessa Dublino non regna esattamente la tranquillità. Il primo ministro irlandese, Micheál Martin, ha chiesto a Londra di evitare azioni unilaterali che metterebbero a rischio, causa sanzioni, gli stessi rapporti economici con Londra.

Le intenzioni di Downing Street sono comunque chiare: proteggere a tutti i costi l’accordo di Belfast, se non sarà possibile trovare soluzioni per riformare un protocollo che l’Europa ha già voluto blindare, come dimostrano le dichiarazioni sia del cancelliere tedesco Olaf Scholz – per il quale “nessuno dovrebbe demolire o rompere unilateralmente, o in alcun modo modificare, l’accordo che abbiamo concordato insieme” – sia del premier belga, Alexander De Croo, che ha dichiarato che “l’intesa sulla quale ci siamo accordati non va toccata”.

Meno preoccupante – ma comunque emblematica della crisi del Regno – è la nuova vittoria dei nazionalisti scozzesi, dopo quella delle legislative dello scorso anno stravinte dal Partito nazionale scozzese (Snp), che ha espresso più volte la volontà di rimanere in Europa e di rendersi indipendente dalla Gran Bretagna. C’è quindi un rischio reale di implosione per il Regno Unito? Non la pensa così Stefan Enchelmaier, esperto di politica europea e docente all’Università di Oxford: “In Scozia – dice il professore – il partito nazionalista, che chiede un secondo referendum per l’indipendenza, si è riconfermato vittorioso, ma non ci sono segni che questa regione si separerà dal Regno Unito. La maggioranza degli scozzesi (sia pure risicata, ndr) è contraria a questa ipotesi, e l’economia di questa regione verrebbe danneggiata”.

Bisogna tuttavia aggiungere due cose. In Scozia l’indipendentismo è nel Dna della popolazione. Dalle targhe delle auto, in cui campeggia la croce di Sant’Andrea, alla sterlina, in cui al posto dell’immagine della regina Elisabetta c’è Walter Scott, padre della letteratura scozzese. E se è vero che, nel 2014, i nazionalisti persero – rappresentando comunque oltre il 40% degli scozzesi –, è altrettanto vero che il quesito riguardava l’indipendenza da Londra. Non c’era ancora sul piatto della bilancia la Brexit. Quando si votò per restare o meno in Europa, gli scozzesi non ebbero dubbi: il 62% votò per restare. Insomma, se la fine del Regno Unito appare lontana, l’integrità territoriale dell’isola non è mai stata messa in discussione come adesso.

 

 

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