IL TACCUINO
Con un ritardo di 24 ore (ma si sa, i politici di nuova generazione leggono poco i giornali italiani, figurarsi quelli stranieri) l’uscita di Mario Draghi sul Financial Times ha terremotato la politica italiana. E non perché l’ex-capo della Bce abbia parlato di chissà che – la necessità di misure straordinarie, anche a costo di un forte aumento del debito pubblico, di fronte a una situazione eccezionale -. Ma perché in questo momento le sue affermazioni sono state percepite come una specie di programma politico del suo ipotetico nuovo governo, di cui apertamente si parla da settimane in Italia. Il vero timore, al di là del possibile arrivo a Palazzo Chigi di un nuovo inquilino, che preoccupa quello attuale, è l’idea che a sostenerlo dovrebbe essere una nuova maggioranza di larghe intese, a cui qualche accenno degli interventi, soprattutto quelli delle opposizioni, nel dibattito in Senato sulle comunicazioni di Conte, ha fatto pensare. E qui si può dire che anche i partiti che sarebbero più tentati, o sospettati di esserlo, sono poi attraversati da dubbi, non foss’altro per il peso della personalità di Draghi e la qualità delle sue relazioni internazionali. Ma non solo: all’interno di una larga alleanza di unità nazionale, come quella che sarebbe motivata dai problemi economici che il coronavirus aprirà nel futuro del Paese, il baricentro è destinato a spostarsi. Così i 5 stelle – e sotto sotto anche una parte del Pd – temono l’asse dei due Mattei, Renzi e Salvini, come possibili padri nobili dell’operazione. Salvini e Meloni dubitano di dover supportare decisioni impopolari, in mancanza di spazio per libere uscite anti-europee. Berlusconi sta a guardare. Chi lascia la via vecchia per la nuova…, dice un vecchio proverbio. Che ieri faceva da retropensiero a molti mediocri calcoli di politica da piccolo cabotaggio. –