Tra veti e rancori quella serie di «no» che imprigiona la sinistra di Mdp.

di Pierluigi Battista

È come se si fossero mentalmente e psicologicamente bloccati nell’attimo fatale del referendum del 4 dicembre, quando dovevano dire perentoriamente «No». I fuoriusciti dal Pd, poi raccolti nella sigla Mdp, preceduta dal richiamo all’Articolo 1 della Costituzione, quello che evoca il lavoro come fondamento primo del nostro Stato, si sono incantati sul «No».

L’ultimo «no», detto anche veto, è quello pronunciato sull’ipotesi di candidatura a governatore della Sicilia di Fabrizio Micari, caldeggiato da Leoluca Orlando che peraltro era assiso con i maggiorenti di «Insieme» nella manifestazione della rediviva sinistra del primo luglio. «No» stentoreo e inequivocabile. Ma prima c’era stato il «No» all’ipotesi di anticipo congressuale del Pd proposta da Matteo Renzi, vero casus belli che ha portato alla separazione. Poi un «No» meno stentoreo alla proposta di Giuliano Pisapia di non frantumare tutti i ponti con il Pd per le prossime elezioni, poi diventato stentoreo quando Pisapia si è prodotto nel solidale abbraccio con Maria Elena Boschi, vedendo diminuita la possibilità di una sua leadership della sinistra che si allea con il centro. In verità c’erano stati alcuni «Sì» nelle candidature unitarie alle elezioni amministrative di giugno ed è stato un disastro, con il centrodestra trionfante. Per cui è tornata prepotente la tentazione del «No» globale. No a tutto, a candidati, alleanze, leader. Come se il «No» fosse il rimedio alla paura della contaminazione. Della contaminazione con Matteo Renzi, ovviamente.

Ma sembra quasi che vogliano indirettamente fargli un piacere a Renzi. Perché c’è solo una persona che, più degli esponenti del Mdp, vorrebbe cancellare dalla faccia della terra anche lontanamente l’alleanza tra il Pd e l’arcipelago ancora parecchio instabile della sinistra in cui hanno preso casa gli ex del Pd: e questa persona si chiama Matteo Renzi. Il quale infatti in Sicilia, come a voler agitare il drappo rosso che fa infuriare vieppiù un toro già abbastanza infuriato, costruisce un asse privilegiato con Angelino Alfano, gonfiando il prevedibile «no» della sinistra con una forza particolare. Ma è solo un pretesto, forse. È che un’antica malattia riaffiora quando tra ex della sinistra l’abisso della separazione crea rancori e risentimenti inestinguibili e ogni barlume di razionalità politica, di semplice ed elementare calcolo, in questo caso il calcolo di evitare la vittoria nell’isola del centrodestra o del Movimento 5 Stelle, viene travolto dalla deriva minoritaria, dalla pulsione alla divisione in minuscoli pezzi che, se soddisfano la legittima ansia di identità e di purezza, portano inevitabilmente allo scacco elettorale. Ossia, in una parola: alla sconfitta. Nobile, pura, ma pur sempre sconfitta.

Ecco perché il gioco dei veti reciproci, dei No incrociati, rischia per il centrosinistra di fare della Sicilia l’antipasto di quello che potrebbe accadere nelle elezioni per il prossimo Parlamento nazionale. E del resto il No a ogni leadership chiara, che sta facendo di «Insieme» il contrario di ciò che dovrebbe essere trasmesso attraverso quel motto, non può diventare una linea politica alternativa e nemmeno un’offerta appetibile per un elettorato sempre più depresso e frastornato. Un «No» che va benissimo per un referendum ma non per una proposta di governo, argomento che non dovrebbe essere estraneo a chi è stato ai vertici del Pd e del governo. La politica dei veti contiene un suo motivo di orgoglio, ma anche un irresistibile impulso suicida. In Sicilia. E anche a Roma.

 

  • Sabato 26 Agosto, 2017
  • CORRIERE DELLA SERA