Ecco, purtroppo, a questa nuova fase, non tutte le Giunte arrivano con le carte in regola: è di ieri la notizia che cinque Regioni, la scorsa settimana, non avevano inviato dati sufficienti per valutare la loro situazione al ministero della Salute, motivo per cui i tecnici non hanno potuto elaborare in tempo lo stato di rischio per i vari territori e si è dovuto ritardare a oggi l’elaborazione dei risultati della prima settimana di monitoraggio dopo la parziale riapertura del 4 maggio.

Le cinque ritardatarie sono, in ordine alfabetico: Calabria, Campania, Molise, Liguria e Piemonte. La Conferenza Stato-Regioni, nella persona del presidente Stefano Bonaccini, è stata avvisata ieri pomeriggio con una lettera dei ministri della Salute e degli Affari regionali, Roberto Speranza e Francesco Boccia, a quel punto – dicono in serata fonti di governo – i ritardatari hanno magicamente fatto arrivare un po’ di numeri, non si sa se sufficienti, pur di non finire nella lista dei cattivi.

Essere in quella lista, d’altra parte, è una pessima idea: il decreto del ministero della Salute del 30 aprile parifica, per un ovvio principio di precauzione, l’assenza di dati sull’epidemia alla incapacità di gestirla. Nel sistema di classificazioni in vigore – “da rischio basso” a “elevato” passando per il campanello d’allarme “rischio moderato” – l’incapacità di fornire dati di qualità sull’epidemia nel proprio territorio “costituirà di per sé una valutazione di rischio elevata, in quanto descrittiva di una situazione non valutabile e di conseguenza potenzialmente non controllata e non gestibile”. Teoricamente, insomma, il Piemonte e le altre quattro avrebbero potuto essere costrette a non riaprire le attività ancora chiuse essendo a “rischio elevato”.

In ogni caso, a leggere le 21 schede regionali (due sono per le province autonome di Trento e Bolzano) preparate dal ministero la situazione del monitoraggio epidemiologico non pare felicissima: sono molte le amministrazioni a non comunicare dati o a far registrare ritardi negli obiettivi (in particolare, fatto di non poco conto, quanto al personale dedicato a testare la popolazione e a tracciare i contatti dei positivi). Insomma, il sistema delle autonomie locali non pare in grado di governare l’epidemia mentre si torna a una molto parziale normalità e – com’era previsto – aumenta leggermente l’indice nazionale medio di riproduzione teorica del virus (da meno di 0,6 a 0,7: al Nord, però, è fortunatamente più basso).

I tecnici della Salute, al momento, confermano – con una sola eccezione – il quadro di rischio al 4 maggio già rivelato dal Fatto: le Regioni (numeri permettendo), sono tutte classificate “a rischio basso” con l’eccezione già nota della Lombardia, ritenuta a “rischio moderato” per numero dei contagi (la metà di quelli nazionali) e pressione sul sistema ospedaliero, categoria in cui la raggiunge però il piccolo Molise, che sconta la scoperta di un focolaio nella zona di Campobasso nato – a quanto pare – a un recente funerale nella comunità rom locale, che ha dato luogo a decine di contagi in una regione finora rimasta quasi immune dal coronavirus.

Insomma, Attilio Fontana e Donato Toma – entrambi di centrodestra – sono i presidenti che più avranno da pensare in questi giorni (ma non i soli, quello del Piemonte Cirio, dicono, è preoccupatissimo). Da lunedì, come detto, tutto passa in capo a loro. Oggi, oltre al vertice con le Regioni, dovrebbe infatti tenersi un Consiglio dei ministri in cui verrà sancito un doppio cambio di rotta.

Il primo riguarda gli ormai famigerati Dpcm, i decreti del presidente del Consiglio che hanno scandito la Fase 1: stavolta si userà un decreto legge, facendo tornare finalmente al centro della scena anche il Parlamento.

La seconda novità riguarda, invece, il contenuto delle norme: mentre finora era concesso ai governatori solo di chiudere più settori rispetto a quelli indicati dal governo, da lunedì potranno aprire tutto quel che ritengono sulla base delle linee guida indicate dal Comitato tecnico-scientifico. Anzi, volendo potranno persino modificarle come ha annunciato Luca Zaia per i ristoranti (quattro metri quadrati per cliente, ritiene il presidente veneto, sono troppi).

L’altra faccia della medaglia, però, è che saranno responsabili anche di una eventuale marcia indietro: il sistema di monitoraggio prevede infatti che, qualora gli indicatori di pericolo che arrivano al ministero della Salute andassero troppo in alto, si debba procedere anche a nuove chiusure e persino alla creazione di “zone rosse” locali come furono quelle del Lodigiano e di Vo’ Euganeo in Veneto. Un’esperienza che tutti sperano non tocchi a loro.