Con le mie foto racconto l’inferno di Ghouta.

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Firas Abdullah, 26 anni, studiava ingegneria quando è iniziata la rivoluzione: si è trasformato in reporter per raccontare quello che accade nella sua città. In questi scatti ha ripreso la vita sotterranea della gente di Douma

Di che cosa stiamo parlando

Da sette anni in Siria si combatte una guerra civile che ha ucciso più di 500mila persone e ne ha costrette all’esilio 6 milioni. Con il sostegno della Russia e dell’Iran il presidente Bashar al Assad è riuscito a rimanere al potere e a riprendere negli ultimi due anni il controllo della maggior parte del Paese. Le zone di Idlib e della Ghouta orientale sono le ultime rimaste in mano ai ribelli: nelle ultime settimane i bombardamenti in queste aeree si sono intensificati. Sabato l’Onu ha votato per un cessate il fuoco ma anche ieri si è continuato a sparare: i morti, nella sola Ghouta, sono stati più di 20

DOUMA, GHOUTA ORIENTALE. Mi chiamo Firas, ho 26 anni e sono un fotografo. Abito a Douma, una città della provincia orientale della Ghouta, alle porte di Damasco. Gli scatti che vedete in queste pagine sono i miei: li ho realizzati per provare a raccontare a voi che siete lì fuori come si vive qui. Mentre vi racconto la mia storia, accanto a me cadono bombe, colpi di mortaio, barili bomba: voi non potete sentirli, ma noi abbiamo imparato a distinguerli con precisione. Queste fotografie rappresentano il rifugio dove, insieme a una sessantina di persone, passo molto tempo per cercare di sfuggire ai colpi dell’aviazione russa e siriana che ci bombardano senza tregua. Alcuni rifugi non hanno luce né acqua corrente, né cibo, assomigliano più a tombe che ad altro: qui non è così. Certo, non è bello, ma sto meglio delle migliaia di persone che vivono di fatto sepolte vive, senza uscire per giorni e giorni. Andare fuori è impossibile se sulla tua testa, appena ti muovi, cade una bomba.

Il governo dice che siamo terroristi o che i terroristi si fanno scudo di noi: guardate voi stessi le facce delle persone che sono nel rifugio con me. Ci sono combattenti nella Ghouta orientale? Sì. Ma sono ammassati nelle zone esterne della regione, per difendersi dagli attacchi dei governativi. Qui nei centri urbani ci sono solo civili: bambini, donne, anziani e anche uomini. Ma nessuno di loro è armato: sono, siamo, gente normale. Voglio raccontarvi la mia giornata. La mattina mi alzo e provo a uscire: al collo ho la macchina fotografica e so bene che potrebbe essere la mia ultima compagna, che potrei morire mentre scatto: in ogni momento. Vivere nella Ghouta orientale è diventata una questione di fortuna: a me finora è andata bene, se Dio vuole. Se vi chiedete perché esco, la risposta è piuttosto semplice. Se io non uscissi, se non lo facessero altri come me, nessuno saprebbe quello che accade qui: il governo e i russi potrebbero raccontare bugie indisturbati. Io invece voglio mostrarvi come stanno le cose.

Funziona? Se non funzionasse, non mi avreste chiamato per raccontarvi la mia storia. Funziona perché io e gli altri fotografi abbiamo mostrato i bambini della Ghouta: bambini che hanno diritto di mangiare e di essere evacuati da questo inferno, e che invece sono bloccati qui. Quando penso al fatto che il mondo ha guardato i loro occhi ma finora ha fatto poco per aiutarli divento furioso: ma continuare a scattare è l’unica cosa che posso fare. Prima della rivoluzione ero uno studente di ingegneria: studiavo all’università di Damasco, a dieci chilometri da casa. Poi, nel 2013 la polizia ha cominciato ad arrestare tutti quelli che venivano dalla Ghouta orientale perché sapevano che questa è una zona anti-Assad. Da allora, ho abbandonato la facoltà: ho continuato a studiare on line, quando ho potuto, e ho preso un diploma in giornalismo. Con la rivoluzione infatti la fotografia da hobby, è diventata un lavoro: ho iniziato facendo video con il cellulare e mi sono ritrovato a vendere scatti alle testate più importanti del mondo.

Della mia vita di prima ricordo tutto. Gli amici che non ho più, il sogno ingenuo del 2011: avevano vinto la Tunisia e l’Egitto, avremmo vinto anche noi. Mi sbagliavo: tutto è diventato violento, e poi è arrivato l’inferno, che è quello in cui viviamo oggi. Ma in questo inferno voglio che sia chiaro chi è la vittima e chi il carnefice: le vittime sono quelle che vedete in queste foto. I carnefici si chiamano Vladimir Putin e Ali Khamenei e Bashar al Assad, un uomo che ha distrutto il suo Paese pur di non piegarsi al desiderio di libertà della gente. Voi in Occidente parlate tanto dei jihadisti e dell’Isis: voglio dire che la responsabilità del loro arrivo è solo di Bashar. Non era questa la rivoluzione che sognavamo noi. Cosa sogniamo oggi? Che la Siria torni ai siriani. Di poter passeggiare ancora nel centro di Damasco, e chiedere a tutta quella gente che vede, che sente, quello che sta accadendo qui, come ha potuto vivere nell’indifferenza. Sogniamo che voi capiate che i nostri bambini meritano di vivere tanto quanto i vostri.

Nulla tornerà come prima, lo sappiamo bene. Io non potrò mai dimenticare i corpi feriti o morti che ho fotografato. Scarico le immagini dalla macchina fotografica, le invio. E poi qualche volta le cancello perché non ce la faccio a tenerle, è troppo: ma dalla mia testa non potrò mai cancellarle. Eppure continuo a scattare: ogni giorno. Perché voi vediate, perché voi sappiate.

(Testo raccolto da Francesca Caferri)

Fonte: La Repubblica, www.repubblica.it/