Comunisti e fascisti, la guerra dei simboli, così la storia si ripresenta in farsa.

di Pierluigi Battista

Come se il mondo non fosse attraversato da brividi di guerra (vera), in Italia ci balocchiamo con una guerricciola (farlocca) sui simboli del passato che non è passato ancora del tutto, sulla memoria divisa, sui postumi risarcimenti d’immagine. In provincia di Teramo la giunta Pd di Nereto concede a Forza nuova una sala intitolata a Salvador Allende per un convegno: tradimento, oltraggio, vergogna. E disdetta della sala. Anche a Giulino di Mezzegra si mima in maschera un episodio del passato: qui Benito Mussolini e Claretta Petacci furono passati per le armi, qui ogni anno, ogni benedetto 28 aprile, anniversario della morte del duce, si radunano i nostalgici della Rsi per rendere omaggio al loro capo morto 72 anni fa, qui il sindaco di sinistra ha deciso di battezzare il luogo con un’esaltazione dei partigiani. E vedremo dal prossimo anno quante forze dell’ordine saranno chiamate per evitare scontri e targhe deturpate. Qui in Italia, nel 2017, piace ancora giocare l’infinita partita di «fascisti contro comunisti», per sempre.

La rimozione dei simboli del passato è sempre stata l’antefatto di fatti seri e talvolta tragici. Quando i talebani in Afghanistan fecero saltare le statue «idolatriche» di Buddha, si segnò l’inizio di un’escalation di vandalismo fanatico senza limiti. Ora negli Stati Uniti la guerra delle statue sudiste riaccende dispute che sembravano spente, fino a mettere in discussione un’opera celeberrima come Via col vento . In Italia, per fortuna, il secondo tempo di una guerra civile cruenta e feroce fa della guerra ai simboli un’attività che si consuma in se stessa, lasciando dietro molti fuochi, ma fuochi di carta, destinati a esaurirsi con la stessa rapidità con cui sono divampati. Persino la presidente della Camera a un certo punto e malgrado i gravosi impegni parlamentari, si è prestata al gioco della demolizione simbolica auspicando l’azzeramento di tutti i monumenti simbolo dell’epoca fascista. Ma quando le è stato fatto notare che, oltre all’obelisco con su scolpito «Mussolini Dux» al Foro Mussolini, anzi al Foro Italico, occorresse radere al suolo interi centri urbani come Latina (Littoria) e Sabaudia nell’Agro Pontino, la richiesta è stata saggiamente accantonata.

Chissà quante volte inoltre, da destra soprattutto, si è gridato allo scandalo storico-ideologico per la statua di Lenin nel centro della rossa Cavriago, provincia di Reggio Emilia, o per le innumerevoli strade intestate a Togliatti, per quelle a Stalingrado, per i viali dedicati all’Unione Sovietica e per altri miti della storia comunista. E chissà quante volte al primo tentativo di intestare un vicolo, una stradina, lo spicchio laterale di un parco a Giorgio Almirante è venuto giù il mondo della sinistra indignata. Che si indignò anche quando l’allora sindaco di Roma Rutelli si spese per intestare a Giuseppe Bottai, gerarca fascista ma soprattutto governatore di Roma, una zona di Villa Borghese. Scandalo, oltraggio, vergogna.

La guerra tardiva della toponomastica ha in sé qualcosa di paradossale. Non è animata da ribollenti spiriti quando nel fuoco della battaglia una statua viene abbattuta o un busto viene sradicato o una via viene ribattezzata con la giustificazione del furore e della rabbia incontenibile. Ma agisce su passioni che ormai si sono inevitabilmente raffreddate. O addirittura in presenza di generazioni oramai anagraficamente lontanissime dai fatti controversi. E ora una sala, una targa, un’intestazione, una bandiera, una commemorazione cercano di rianimare discussioni che battevano un po’ la fiacca, ripresentando lo scenario di tempi oramai sepolti che vengono tenuti in vita dalle guerre infinite della memoria divisa, anzi spaccata. Ma la prima volta è tragedia. La seconda, come è noto, molto ma molto meno.

 

  • Giovedì 31 Agosto, 2017
  • CORRIERE DELLA SERA