Cina.

Pechino gioca al ribasso: lo yuan ieri è stato svalutato ed è sceso al punto più basso nei confronti del dollaro dal settembre 2012. E subito diversi strateghi dei mercati monetari si sono messi l’elmetto, temendo l’inizio di una guerra delle valute. Perché, anche se la svalutazione annunciata a sorpresa dalla Banca centrale cinese è inferiore al 2 per cento, si tratta del ribasso più forte dal 1994, quando Pechino introdusse il suo sistema di controllo rigido del tasso di cambio. Attualmente la Cina gestisce il cambio dello yuan rispetto al dollaro e alle altre valute principali fissando ogni giorno un punto medio ufficiale intorno al quale la sua moneta può variare, senza salire o scendere oltre il 2%; in realtà le oscillazioni sono così controllate che da gennaio non avevano mai superato la soglia dello 0,06%.
Che cosa significa allora questa svalutazione? L’obiettivo più scoperto della mossa di Pechino è di sostenere la produzione industriale dopo che a luglio le esportazioni del «made in China» erano cadute dell’8,3% rispetto allo stesso mese del 2014. Ma anche se un deprezzamento del 2% potrà spingere l’export cinese e avrà un impatto importante sui commerci globalizzati (ieri i titoli del settore auto e lusso occidentali hanno subito un contraccolpo), a Pechino i pianificatori dell’economia stanno giocando una partita più sottile di una classica svalutazione competitiva.
La People’s Bank of China definisce la sua azione «aggiustamento una tantum» e sostiene che fa parte di una manovra per aprire lo yuan a contrattazioni legate ai mercati. La Banca centrale assicura anche di voler tenere il corso della moneta «fondamentalmente stabile», ma nel comunicato di ieri ha aggiunto che siccome «la situazione è complessa e pone nuove sfide, le forze del mercato avranno un ruolo più ampio nella determinazione del tasso di cambio dello yuan». E questa seconda parte del ragionamento cinese fa temere agli analisti che possano esserci altre svalutazioni all’orizzonte. Intanto l’agenzia Xinhua , voce ufficiale del governo, scrive già che «il mercato si aspetta che la banda d’oscillazione quotidiana dello yuan dal 2% sia ampliata al 3% nel prossimo futuro».
Prima di suonare l’allarme per la discesa in campo del gigante cinese nella guerra delle valute, bisogna considerare che il Giappone, terza economia del mondo, con la sua politica di «quantitative easing» ha svalutato lo yen del 20 per cento negli ultimi 18 mesi, e che anche l’euro è sceso drammaticamente rispetto al dollaro quest’anno. Quando a Pechino ora spiegano che di fronte a questi fatti il cambio dello yuan doveva essere «riaggiustato» non dicono un’assurdità, dal loro punto di vista: la moneta cinese secondo le stime della People’s Bank of China si è apprezzata del 35% sul dollaro dal 2005 e del 17% solo nell’ultimo anno e mezzo. Alcuni analisti sono convinti che se davvero l’obiettivo principale del presidente Xi Jinping e dei suoi strateghi economici fosse stato una drastica svalutazione, non avrebbero limitato la prima mossa a un deprezzamento dell’1,9%, dando così l’avviso al resto del mondo, ma avrebbero affondato il colpo con forza ben maggiore.
Un altro obiettivo di Xi e dei suoi uomini è di entrare nel salotto buono dei mercati valutari facendo ottenere allo yuan la qualifica di moneta di riserva da parte del Fondo monetario internazionale accanto a dollaro, euro, yen e sterlina. Il Fmi ha preso tempo per la decisione fino all’autunno del 2016 proprio per aspettare che Pechino allentasse le restrizioni sul corso dello yuan e quindi, fino a prova contraria, la svalutazione di ieri potrebbe essere l’inizio della marcia di avvicinamento.
Guido Santevecchi
@guidosant