Italia, rimandata in politica estera

Pubblicato: 05/12/2014 14:31 CET Aggiornato: 05/12/2014 14:34 CET

 Cinque ministri in diciotto mesi. Un record mondiale. Il “valzer della Farnesina” dove in un anno e mezzo si sono succeduti cinque responsabili della politica estera del Belpaese. Si avvicina la fine del 2014, e con esso anche il semestre di presidenza italiana della Ue. Tempi di bilanci, dunque. E quello registrato dall’Italia nel suo semestre presidenziale, e più in generale nella sua azione negli scacchieri internazionali più caldi, è, ad essere generosi, lontano dalla sufficienza. Molto lontano. Perché, per restare all’Europa, il Vecchio Continente, per dirla con il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, non ha “cambiato verso”, passando dall’iper rigorismo ad una nuova politica di crescita.

Sia chiaro: quelle manifestate dal presidente del Consiglio erano intenzioni importanti, progressive, a partire dalle nuove politiche sociali e di sviluppo che l’Europa avrebbe dovuto determinare. Resta il fatto, però, che a dettar legge è ancora Berlino, e la Commissione europea guidata dal “chiacchierato” Juncker è, se possibile, ancora più segnata dal “verso” conservatore di quanto già lo fosse quella precedente guidata da Barroso.

E non basta ad alzare più di tanto il voto, il “fiore all’occhiello” esibito da Renzi: la nomina di Federica Mogherini ad Alto Rappresentante della politica estera e di sicurezza dell’Ue. Incarico di prestigio, certamente, ma di scarsa incidenza visto che le cancellerie che contano in Europa – Parigi, Londra, Berlino – non hanno alcuna intenzione di cedere un minimo di sovranità nazionale a “Lady Pesc” per ciò che concerne la politica estera.

Per non parlare poi della corsa all’occupazione dei posti che contano nella struttura dirigenziale dell’Unione: qui l’Italia arranca da tempo, surclassata non solo da Gran Bretagna, Francia e Germania, e questo potrebbe anche starci, ma anche da Spagna e Polonia, e qui la débacle è meno comprensibile. E le cose non migliorano di molto, anzi peggiorano, quando il bilancio si sposta sul fronte Est, alla crisi russo-ucraina. L’ex titolare della Farnesina era stata criticata, e osteggiata, dai Paesi Ue dell’ex impero sovietico per una presunta posizione “filo-russa”.

Col sostegno Usa, in Europa si è affermato il fronte dei “sanzionisti”, dei Paesi, cioè, che spingevano per l’assunzione di misure sempre più duro nei confronti dell'”espansionismo” putiniano. Linea risultata vincente. E di questo a subirne le conseguenze materiali più dure è stata proprio l’Italia, come testimonia, ed è solo l’ultimo caso, la decisione del Cremlino di bloccare lo sviluppo di South Stream, penalizzando in primo luogo la Saipem – la società di ingegneria controllata da Eni – e dunque l’Italia. Saipem ha delle clausole di protezione nel contratto che tuttavia coprono solo una parte limitata del progetto: la perdita per il gruppo italiano è stimata in 270 milioni di euro a livello di risultato operativo.

Ma il capitolo più dolente è quello che investe l’area su cui il nostro Paese, per collocazione geopolitica e per interessi nazionali, avrebbe dovuto esercitare una funzione di leadership: il Mediterraneo e Vicino Oriente. Il semestre di presidenza italiana dell’Ue, anche alla luce dei drammatici avvenimenti che stanno sconvolgendo quella Regione, avrebbe potuto determinare uno spostamento a Sud delle politiche dell’Ue – vista anche l’emergenza immigrazione – rimarcando così quella “vocazione mediterranea” che ha rappresentato, anche ai tempi della vituperata Prima Repubblica, il meglio della nostra politica estera. Questo salto di qualità è rimasto solo una aspirazione, dichiarazione di principio smentita dai fatti. L’Europa – si è ripetuto più volte – non può assistere da spettatrice all’esplosione del Vicino Oriente. Soprattutto, non possono farlo i Paesi euromediterranei. Perché ciò che avviene alle nostre «porte» avrà una immediata conseguenza sulle nostra vite, sulle scelte che Roma, come Parigi, come Madrid, saranno chiamate a prendere in un futuro che si fa presente. Sicurezza, e non solo.

La forza di un «Patto euromediterraneo» si misura oggi, nella capacità di incidere sugli eventi che si consumano al Cairo come a Damasco, a Tripoli come a Gerusalemme e Ramallah. Le «Primavere arabe», come gli accadimenti in Terrasanta, hanno liquidato l’illusione di quanti ritenevano possibile mantenere lo status quo nel Maghreb e nel Vicino Oriente, affidandosi a gerontocrazie che avevano fatto bancarotta morale, sociale, politica, dilapidando ricchezze, impoverendo i popoli, facendo scempio di diritti.

La storia non si ferma. O si prova a orientarne gli eventi oppure se ne resterà travolti. E l’ascesa dello Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi e del suo esercito di tagliagole ne è una drammatica riprova. D’altro canto, nel mondo si conta se si pratica, e non si predica, se alle parole seguono i fatti: è stato così in Libano, quando il governo di centrosinistra, guidato da Romano Prodi e con Massimo D’Alema alla Farnesina, trainò l’Europa, e gli Stati Uniti, nella missione Onu che ha garantito, in questi otto anni, stabilità alle frontiere tra il Paese dei Cedri e Israele.

In politica estera le parole pesano. Perché sono considerate il viatico per impegni conseguenti. E se questi vengono meno, il tuo credito si azzera. La Libia, ad esempio. L’Italia, già con il governo Letta, si era assunta, con il bene placito di Washington, di essere il Paese europeo che avrebbe garantito la stabilizzazione della Libia post-Gheddafi. Il che significava dar vita, ex novo, a istituzioni democratiche, addestrare un esercito e, soprattutto, disarmare le oltre 250 milizie che oggi dettano legge in quel Paese. Impresa impossibile. Per tutti. Ma l’Italia se ne era assunto il compito, e non l’aver portato a termine, in vero neanche a metà strada, è un deficit che pesa. La politica estera è un investimento e non un lusso per un Paese che vuol pesare nel mondo. Questioni di risorse umane, certamente, ma anche di investimenti.

E qui c’è un’altra nota dolente: vale la pena ricordare che il bilancio degli Esteri, pari a 1,68 miliardi di euro, è ritornato a livelli assoluti inferiori a quelli del 2001 ed è in caduta libera in termini relativi (rispetto al bilancio dello Stato). Mai prima d’ora si era arrivati al di sotto dello 0.2%. I nostri partner internazionali dedicano alla politica estera stanziamenti ben superiori: la percentuale di bilancio, compresa la cooperazione allo sviluppo, del Quai d’Orsay è dello 0,42%; quella del Foreign Office è dell’1,27%; la Germania dedica alla politica estera l’1,1% del bilancio statale; la Spagna lo 0,45% e l’Olanda addirittura il 2,5%.

Adeguare le risorse è un passaggio ineludibile. Ma l’Italia stenta a compierlo. Risorse e scelte di campo. Che stentano a manifestarsi. Un esempio in proposito è il riconoscimento dello Stato palestinese. A pronunciarsi in questo senso sono stati i Parlamenti di Gran Bretagna, Spagna e Francia, oltre che il governo della Svezia. Paesi euromediterranei, Spagna e Francia, l’uno, la Spagna, governato da un partito di centro-destra (il Partito popolare del premier Mariano Rajoy) – l’altro, la Francia, da un governo, e un presidente di sinistra. Il voto dei Parlamenti di Spagna e Francia, come quello britannico, non vincola i rispettivi governi, ma certo ha una forte valenza politica. E dà conto di un protagonismo che incide sulle dinamiche mediorientali.

L’Italia, come ha rimarcato il neo ministro Paolo Gentiloni, ha deciso di attendere, non perché fosse in disaccordo, in linea di principio, con quanto deliberato da altri Parlamenti europei, ma perché Roma ritiene che non sia il momento opportuno. Ma in politica, anche in quella estera, i tempi pesano, e molto. E l’attesa non è una carta spendibile al tavolo di quelli che contano.