Russia.

L’economia russa va male, con il prezzo del petrolio sempre bassissimo, il rublo in discesa e le sanzioni occidentali che fanno sentire il loro effetto. Ma nonostante ci sia chi si spinge fino a prevedere conseguenze sulla stabilità del sistema politico, il presidente Vladimir Putin sembra tranquillo, dall’alto del suo 89 per cento di consensi. Il Paese, grazie anche all’azione martellante dei media, è convinto che tutto sia dovuto unicamente alle manovre degli americani. E che non ci siano alternative: se «saltasse» l’attuale sistema di potere, si potrebbe aprire addirittura uno scenario medio-orientale. Ogni giorno nelle case dei russi arrivano le immagini delle conseguenze dei tentativi di rovesciare i regimi: Libia, Iraq, Siria.
La notizia del calo del prodotto interno del 4,6 per cento nel secondo trimestre è giunta come una doccia fredda dopo che le autorità avevano continuato a sostenere che il periodo peggiore era ormai alle spalle. Ma il petrolio continua ad avere prezzi bassissimi e perfino le previsioni per i prossimi anni sono negative per la Russia.
Le sanzioni impediscono alle aziende russe di finanziarsi sui mercati internazionali (a fine anno ci sono scadenze per 35 miliardi di dollari) e di sviluppare progetti per estrarre nuovo gas e nuovo greggio. Programmi di Gazprom e Rosneft con Shell ed ExxonMobil nell’Artico e in Estremo Oriente vengono accantonati. Il colosso del gas ha visto diminuire del 16 per cento le esportazioni.
Aziende e banche in crisi ridimensionano gli investimenti e licenziano: Gazprom taglia un programma da 10 miliardi di dollari per liquefare il metano e rinvia il gasdotto sotto il Mar Nero. Alla banca statale Sberbank si perdono 3600 posti di lavoro; alla VTB duemila.
Senza poter importare tecnologia occidentale, diventa sempre più difficile sviluppare il settore energetico. E i tentativi di sostituire le importazioni con merci autarchiche che all’inizio aveva creato grandi entusiasmi, si sta rivelando difficilissimo. Il crollo delle importazioni non produce aumento dell’attività interna, come dice il dato sul secondo trimestre. La Russia, tra l’altro, non riesce ad essere efficiente. I dati internazionali dicono che la produttività dei suoi lavoratori è metà di quella media europea, più bassa perfino della Grecia.
Le gente sta male, con un salario minimo fissato in 6383 rubli mensili, pari a 90 euro, e non ce la fa a tirare avanti. Quest’anno le vendite di auto, comprese quelle locali più economiche, sono previste in ulteriore calo del 36 per cento.
Ma tutto questo avrà effetti sul sistema politico? L’ex ministro degli Esteri di Boris Eltsin, Andrej Kozyrev, dice che nel suo Paese «un cambio di regime è inevitabile, forse imminente». Ma pochi condividono la sua opinione. Sembra più probabile che l’aggravamento della crisi spinga la Russia nella direzione di un ulteriore arroccamento e isolamento, quasi come ai tempi dell’Unione Sovietica, mentre i toni si fanno sempre più duri.
Il ministro degli Esteri Lavrov, che disse di voler «dare una lezione agli americani» sulla Siria, ha accusato recentemente Washington di aver creato lo Stato islamico appoggiando i mujaheddin afghani contro i sovietici negli anni Ottanta. Anche il ribasso del greggio «è stato provocato ad arte dagli Stati Uniti», dicono gli esperti del Cremlino.
Il presidente del Parlamento Sergej Naryshkin, poi, non ha dubbi: quello di mandare in bancarotta altri Stati «è il metodo abituale» degli americani. Tutti attorno a Putin, dunque, pronti ad un inasprimento dello scontro. Che potrebbe anche farsi cruento.
Fabrizio Dragosei
@Drag6