Chi ha paura della parola «genere»?

Il nostro Paese aspetta da decenni una legge che contrasti efficacemente le discriminazioni nei confronti delle persone LGBT+. Oggi, dopo i poco fortunati tentativi del passato, abbiamo davanti un’occasione unica per far fare al nostro Paese un passo avanti nel cammino della piena uguaglianza e dignità per tutti e tutte.

L’Italia ha bisogno di una legge contro l’omolesbobitransfobia. Il report annuale sulla condizione delle persone LGBT+ nei paesi europei, prodotto ogni anno dall’associazione ILGA Europe, ci consegna anche quest’anno un quadro desolante. Nel 2020, infatti, l’Italia è al 34esimo posto su 49 paesi europei sulla tutela dei diritti LGBT+, addirittura peggio della tanto citata Ungheria di Orban.

Dell’urgenza di questa legge, però, non ci parlano solo le statistiche, ma la vita reale. Le organizzazioni LGBT+ ricevono costantemente segnalazioni e richieste di aiuto da parte della comunità. Giovani cacciati di casa o sottoposti alle torture note come «terapie riparative», persone picchiate perché osano baciarsi in pubblico o tenersi per mano, persone perseguitate perché non rispondono al canone patriarcale di «normalità».

Per convincersi dell’utilità e dell’urgenza di questa legge, insomma, basta immergersi nella realtà, ascoltare la voce di queste persone e chiedersi se è accettabile tollerare queste situazioni.

La legge Zan rappresenta un buon compromesso per far fronte a questa emergenza. Il testo si è arricchito grazie a un lavoro di concerto tra istituzioni e organizzazioni della società civile. Oggi il cuore di questo testo sono le politiche attive di contrasto alla discriminazione. Queste azioni concrete permetteranno di intervenire sull’odio omolesbobitransfobico prima ancora che esso produca violenze e reati.

Il contrasto alle discriminazioni in ambito penale, infatti, è sicuramente significativo ma non sempre l’odio e la discriminazione si traducono in azioni criminose. Talvolta si palesano in azioni apparentemente inoffensive che tuttavia colpiscono duramente chi le subisce. Per questo l’obiettivo dell’azione politica deve essere innanzitutto un cambiamento culturale che renda la nostra società più inclusiva a prescindere dalle sanzioni penali.

In questo momento iniziale del dibattito cominciamo già a vedere i primi movimenti di contrasto a questa legge. Alcuni di questi non ci stupiscono, come l’ennesimo Family Day convocato contro le persone LGBT+ più che a favore di politiche per le famiglie, altri sono per noi più dolorosi e inaspettati.

Mi riferisco a parte del movimento femminista che mostra riserve sull’utilizzo delle parole «genere» e «identità di genere» nel ddl Zan. L’inserimento di queste locuzioni è dovuto alla volontà degli estensori di prevedere la tutela più ampia possibile contro le discriminazioni omolesbobitransfobiche e misogine.

Si chiede di eliminare o sostituire questi termini e, nel valutare questa richiesta, occorre capire quale sarebbe il prezzo da pagare se dovesse essere accolta. Circoscrivere la portata di questa normativa, infatti, eliminando i termini «genere» e «identità di genere», comporterebbe una riduzione della forza di questa legge e, in particolare, della tutela nei confronti delle donne e della comunità trans.

Questa riduzione non porterebbe, d’altra parte, nessun evidente lato positivo a nessuna soggettività discriminata anzi, rischierebbe di rappresentare un implicito lascia passare per chi sulla base del genere discrimina, ferisce ed esclude. A chi giova tutto ciò?

Può una pretesa ideologica essere la giustificazione per tutelare meno persone in carne ed ossa che oggi ci chiedono aiuto? A me la risposta a questa domanda sembra abbastanza scontata ma se ci sono preoccupazioni concrete, rischi reali e tangibili, invito chi critica la formulazione attuale a palesarli e affrontarli insieme, non per polemizzare ma per trovare una strada che non lasci nessuna soggettività indietro.
Questa è, secondo noi, la sfida dei prossimi mesi: non lasciare indietro nessuno.
*Presidente CCO Mario Mieli

 

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