Non voglio fare una recensione, mi interessa però cominciare da un libro. È uscito un saggio di Adolfo Scotto di Luzio, Nel groviglio degli anni Ottanta (Einaudi). La quarta di copertina mi fa delle promesse da banditore: La politica, gli amori, le delusioni: i giovani degli anni Ottanta raccontati in un libro fuori dagli schemiPerfetto, perché personalmente avevo otto anni nell’80, e quindi 18 nel ’90: gli anni Ottanta sono io, gli Eighties sono i miei compagni di classe, i miei amici, tutto ciò che mi stava intorno mentre crescevo. L’argomento mi interessa. Ecco che però si insinua, insidioso, il sottotitolo: Politica e illusioni di una generazione nata troppo tardi. Troppo tardi? Ahia. Come si dice, deve esserci l’inghippo. In effetti, anche la quarta di copertina, letta a fondo, è molto minacciosa: Quali, infine, i rapporti con la generazione precedente, con quel Sessantotto in particolare che così prepotentemente ha occupato gran parte dell’orizzonte della loro formazione? Ahissima, allora. Altro che inghippo. Ancora il Sessantotto tra le palle, dunque. Ma quando finirà?

Il libro dichiara di essere interessato alla formazione, e non tanto al realismo di una prospettiva politica (ovviamente, rivoluzionaria). Bisogna tuttavia dire che della generazione ggiovane negli anni Ottanta si parla pochissimo. È la parte residuale del libro, schiacciata tra la dettagliata ricostruzione di quel che la precede (cioè il ’68 e tutti gli anni Settanta) e alcune divagazioni su fenomeni largamente di terzo piano, quale ad esempio la Pantera.

(E ricordiamolo, cosa sia stata, la Pantera. Tra la fine del ‘90 e l’inizio del ’91, in opposizione a una possibile riforma universitaria – mal capita perché mal venduta al pubblico, e comunque piuttosto timida –, le università sono state occupate. Dovevano emergere – sai che fantasia – le contraddizioni culturali del capitalismo. Si è trattato, a dire il vero, di un’occupazione molto molto soffice, nata e morta in una manciata di settimane. Si potrebbe anche dire così: per tre mesi molti ragazzi hanno dormito all’università, dentro ai sacchi a pelo, guardati con tenerezza da famiglie e Istituzioni. Un po’ come i bimbi che giocano ai grandi e pretendono di dormire fuori casa, e allora i genitori gli consentono di passare la notte nella tenda costruita apposta in giardino).

Il libro si legge velocemente, come a volte capita con i saggi che dicono cose che uno trova poco o per nulla condivisibili. Certo, bisogna passare sopra gli stucchevoli omaggi cattedratici da testo universitario (come scrive Reinhart Koleselleck… come ha notato Heinz Kohut… per dirla con Haim Burstin…). E magari bisogna anche far finta di niente, incrociando la sintassi sociologica che rende tutto più triste (e la professionalizzazionel’individualizzazione della sollecitudine materna, naturalmente la teorizzazione – quando non proprio “La generazione del Settantasette era venuta al mondo quando si poteva dire ormai concluso quel processo che i sociologi chiamano di neolocalizzazione delle coppie degli sposi”). E bisogna pure passare sopra alle tante affermazioni apodittiche:

“A metà degli anni Ottanta gli studenti ritornano sulla scena con un linguaggio povero, impacciato, dimesso, che stenta a trovare la strada del pensiero”.

Perché, il linguaggio dei sessantottini cos’era, se non un noiosissimo rimasticamento di marxismo di quinta mano? O dobbiamo davvero credere che tutti i contestatori fossero sottili esegeti di Marcuse e della Scuola di Francoforte? Non è proprio possibile sospettare che quelli – più che essere testi formativi – fossero solo titoli da citare, concetti mai digeriti e però ripetuti a pappagallo? In realtà, conoscendo i polli italiani – sempre quelli, sempre uguali – viene piuttosto da chiedersi quanti ci abbiano davvero messo dentro il naso, all’epoca. Anche perché erano libri illeggibili, barocchi nel senso peggiore, noiosissimi. Prima di tutto, scritti male.

Affermare, come fa Scotto, che gli anni Ottanta vengono inaugurati dalla marcia dei quarantamila a Torino, è del tutto arbitrario. Dire che gli anni Ottanta sono quelli che stanno tra il gol di Tardelli alla Germania nell’82 e i rigori sbagliati contro l’Argentina nel ’90 è un’affermazione altrettanto arbitraria, e che quindi ha lo stesso valore. Tra le due partite, in fondo, c’è l’Italia sesta potenza economica del mondo – quella dei BOT al sedici percento e degli asini che volavano nel cielo dell’edonismo reaganiano.

Comunque il ’68, sempre il ’68 – è da quando son bambino che ogni tanto salta fuori quello che “Io ho fatto il ’68!”. (“E io, che ho fatto il 69?” commentava, sarcastico, Arbasino). Ma il fatto è che i sessantottini hanno sostituito i baroni con altri baroni, cioè sé stessi. E ci hanno campato sopra tutta la vita. Anzi, lo fanno ancora adesso: una rendita di posizione che deve ancora esaurirsi. Nel libro manca totalmente l’affermazione più lucida, a proposito del ’68. Cioè quella di Ionesco, che agli studenti urlava: diventerete tutti notai! Saltare Ionesco, far finta che non esista, è una vecchia costante, questo è risaputo. Anche quando peccava di eccessivo ottimismo, come in questo caso. Perché, se consideriamo l’Italia, i contestatori non sono diventati (soltanto) notai. Hanno finito per impersonare perfettamente i personaggi dei film italiani che Moretti va a vedere in Caro Diario, anno 1993:

“La nostra generazione… Che cosa siamo diventati? Siamo diventati pubblicitari, architetti, agenti di Borsa, deputati, assessori, giornalisti… Siamo tanto cambiati: tutti peggiorati… Gridavamo cose orrende, violentissime, nei nostri cortei: ora guarda come siamo tutti imbruttiti…”.

Ecco: a parte lamentarsi e intanto occupare lo spazio preso, quei benedetti contestatori hanno poi davvero fatto qualcosa? Magari scritto grandi libri, ad esempio? Libri duraturi? Intanto, bisognerebbe sempre ricordare che quella dei contestatori universitari non era e non poteva essere altro che una minoranza, in termini di statistica. Rumorosa finché si vuole, ma minoranza. E pure confinata a qualche città. In ogni caso, la sensazione (un po’ più di una sensazione) è che si sia trattato di gente che ha poi passato la vita a occupare qualunque spazio pubblico e qualunque poltrona di giornale o televisione – ovviamente, sempre ripetendo che bisogna dare spazio e ascolto ai ggiovani. E lo hanno fatto, tra l’altro, un po’ sostenendosi l’uno con l’altro e un po’ accusandosi a vicenda di aver tradito gli ideali originari – tu sei stato infedele alla nostra gioventù e ti sei venduto a Berlusconi; io che sono sempre rimasto puro, invece, ho pubblicato con Berlusconi soltanto per combattere il Sistema dall’interno – che poi è lo stesso motivo per cui mi sono fatto eleggere, veramente controvoglia, in Parlamento.

(E comunque no: Formidabili quegli anni di Mario Capanna non è un libro capitale, non è Beckett, non è Nabokov e non è nemmeno Ionesco).

E ancora. Se gli anni Settanta sono stati tutta una mobilitazione collettiva – oh, la passione civile! –, allora da dove sono piovuti gli anni Ottanta? Se il ’68 è stato irripetibile, mentre si parla di inadeguatezza – addirittura storica! – dei tapini venuti dopo, allora c’è qualcosa che non torna. Gli yuppies, ad esempio: i vituperati rampanti dell’epoca. Da dove sono arrivati? Basterebbe fare due conti (molto aritmetici). Negli Eighties avevano tra i trenta e i quarantacinque anni. Erano pertanto figli diretti del decennio dei Settanta. Avevano studiato – guarda un po’ – proprio in quegli anni lì, quando gli era ancora tutto un rilevare la contrapposizione tra capitale e lavoro. In questo senso, se vogliamo parlare di una vita (davvero) esemplare, possiamo tornare a Sergio Cusani: dal movimento studentesco alla consulenza finanziaria per Gardini. Fino a Tangentopoli: dove si dimostrerà molto più dignitoso e intelligente di tutti gli altri presenti in aula al processo Enimont. Tutti. Condannato, finirà dentro e si riabiliterà. Tuttavia, per restare a ciò di cui stiamo parlando, i suoi dorati anni ’80 seguono i ’70, che ne rappresentano l’antecedente cronologico ma – soprattutto – logico. Anzi, causale.

Va bene, gli anni Ottanta e il pressapochismo dell’orizzonte culturale del decennio. Ma non ha senso tentare di dimostrarlo citando Luis Miguel – cioè un ragazzino che all’epoca era già abbondantemente sfottuto dai suoi coetanei che stavano alle scuole medie. Noi ragazzi di oggi non era il manifesto di un’epoca: era una delle tante canzoni cretine per Sanremo ’85. Come si fa a conferirle un valore diverso? Sarebbe come giudicare l’anno del Signore 1973 – e i suoi figli – sulla base del fatto che Le figlie del vento cantassero l’imbarazzante Sugli sugli bane bane (“tu miscugli le banane / le miscugli in salsa verde / chi le mangia nulla perde”).

Una generazione arrivata in ritardo? E perché non troppo in anticipo, piuttosto? Se consideriamo i ragazzini digitali, infatti, allora si può anche dire che la vera sfortuna/colpa della generazione degli anni Ottanta sia quella di essere arrivata in anticipo. Per carità, siamo tutti capacissimi a maneggiare le mails, usiamo la PEC, siamo maghi dello streaming quando ne abbiamo bisogno per vedere film o sport. Resta il fatto che, rispetto a qualunque nato digitale, siamo semianalfabeti. Più che la firma digitale, la nostra è una X digitale. Peggio essersi persi il ’68 o essere già fuori dal tempo a cinquant’anni? Di questo non parla mai nessuno. Al massimo si dà atto del fatto che gli ottantini siano stati i primi a crescere nella convinzione che anche loro, come chi li aveva preceduti, sarebbero stati meglio dei loro padri. Perché era sempre andata così, fino a quel momento. Solo che era una falsa convinzione. Quelli nati dopo, al riguardo, non hanno mai avuto alcuna illusione economica.

Se appare giustificata, o giustificabile, l’irriverenza dei sessantottini verso la generazione che li ha preceduti, non si vede perché riservare del rispetto – e non piuttosto la medesima irriverenza – nei confronti degli stessi sessantottini. E dei settantasettini. E irriverenza anche maggiore verso chi – ancora adesso! – continua a guardare a quegli anni come se fossero stati davvero formidabili, magari senza neppure avervi preso parte.

Basta, dunque, con i Reduci. I Reduci erano con i Mille di Garibaldi, hanno combattuto sul Monte Sabotino e sulle pietraie del Carso, hanno fatto la Marcia su Roma, sono saliti in montagna per fare la Resistenza a mani nude (nutrendosi solo di bacche e radici). I Reduci erano a Valle Giulia, hanno fatto il Sessantotto e il Settantasette, avevano per amico qualche Lillo o Lilly-quattro-buchi-nella-pelle (l’amico morto tossico è sempre autocertificazione di profonda autenticità esistenziale). Ma i Reduci hanno un po’ rotto le palle.