Dopo 27 mesi di chiusura, per l’acqua altissima del 12 novembre 2019 e le pause imposte dal Covid, ha riaperto il Museo Fortuny, ovvero Palazzo Pesaro degli Orfei, a San Beneto, con le magnifiche finestre gotiche tutte schiuse, in modo da far entrare fiotti di luce in quello che era un ambiente un po’ oscuro e decadente.
La Fondazione Civici Musei di Venezia, con la guida e l’apporto del davvero «maestro» Pier Luigi Pizzi, ha ridato vita al Museo, scavando nei depositi e nei cassetti, con un lavoro appassionato di «archeologia» (come ha sottolineato la direttrice del MUVE Gabriella Belli), per mostrare al pubblico, in questa casa-museo, tutte le diversissime attività di Mariano Fortuny y Madrazo (1871-1949), quel geniale spagnolo, anzi catalano, che visse nel palazzo dal 1898 all’anno della morte. Gli sopravvisse la moglie, Henriette Negrin (1877-1965), che lasciò l’edificio al Comune di Venezia.
Alla morte del padre Mariano Fortuny y Marsal famoso pittore (1874), la madre Cecilia si trasferisce da Granada, dove era nato Mariano junior, a Parigi. Sotto la guida dello zio materno, il bambino e poi ragazzo Fortuny si appassiona di teatro, di fotografia, di allestimenti scenici, in un ambiente molto stimolante; nel 1889 la famigliola si trasferisce a Venezia, abitando prima in Palazzo Venier dei Leoni, allora albergo, e poi a Palazzo Martinengo sul Canal Grande. A seguire, Fortuny, dal 1898, acquista gradualmente, incominciando dall’ultimo piano, Palazzo Pesaro degli Orfei.
La moglie, conosciuta a Parigi e sua compagna dal 1902, lo aiuta nelle imprese più diverse, avviando un laboratorio di stampa su stoffa: al secondo piano sono stati ricostruiti i laboratori dei Fortuny, da quello delle incisioni, con i torchi impiegati – Fortuny ammira e copia il Goya acquafortista –, a quello della fotografia, a quello della stampa su stoffa. La madre Cecilia, figlia del direttore del Prado, ha una collezione di abiti etnici in seta, esposti, che vengono interpretati da Fortuny nei suoi meravigliosi modelli. È del 1909 il brevetto per la plissettatura della seta, che genera i famosi Delphos, gli abiti celebrati da Proust: affascinante la stanza con i manichini con il capo velato dalle impalpabili sciarpe di seta Knossos, appunto con gli abiti Delphos, creazione davvero «firmata» da Pizzi.
Mariano è pittore, ma anche scultore, designer di mobili, stilista, illuminotecnico: brevetta le sue invenzioni, come le cupole rovesciate che illuminano fin dai primi del Novecento i teatri privati e pubblici, e per le quali verrà chiamato a illuminare la Scuola di San Rocco nel 1937: cupole che ancora esistono in loco, anche se animate ora da luce a LED. Nel piano nobile vediamo anche le cupole in funzione, e lampade a teli che ripetono quelle rappresentate nel quadro di Fortuny, in esposizione. Mariano non è soltanto un multiforme ingegno, è anche un vero imprenditore, non solo brevetta le sue invenzioni, ma impiega fino a cento persone nel suo laboratorio di tessuti nel palazzo.
Al primo piano nobile, nell’immenso salone, più volte fotografato da Fortuny, ora rischiarato dalle polifore gotiche tutte riaperte, vediamo i tessuti da lui inventati, di seta e di cotone, i suoi quadri e quelli del padre, in una vetrina da lui stesso disegnata, i ritratti di Henriette, la «dalmatica» funebre in velluto nero, stampato in oro e argento, fatta da Fortuny per l’amico morto nel 1936, i costumi per l’Otello rappresentato nel cortile del Palazzo Ducale di Venezia nel 1933. Non mancano le copie dai grandi maestri, Tiziano, Tiepolo, Rembrandt, esercitazioni che tutti i pittori facevano, assieme ai quadri ispirati a opere di Wagner, di cui Fortuny è un appassionato cultore, e i bozzetti per i costumi del Tristano e Isotta rappresentato alla Scala. Nella sala laterale del piano nobile si può riposare nel «Giardino dipinto», 140 metri quadrati di illusorio giardino, con fronde, fiori, animali esotici, figure allegoriche, divani coperti dai tessuti stampati, dove è facile immaginarsi incontri di personaggi del tempo, dalla Marchesa Casati a pittori e musicisti. La Marchesa Casati è «presente» con un ritratto di Lino Selvatico, ma anche in diverse fotografie esposte, dove compaiono Giovanni Boldini, e altri personaggi del tempo. Non manca la collezione di armi e armature spagnole, testimonianza del Fortuny collezionista, evocato anche attraverso vetri bellissimi dei Musei Civici non appartenenti ai Fortuny.
Dopo la bellezza degli abiti di seta e velluto, delle incisioni, delle raffinatissime lampade, dei modelli di teatro e di nuove soluzioni per illuminarli, si scende al pian terreno, che è stato completamente invaso dall’acqua del 2019: il lavoro di ripristino del portego centrale, ma anche di spazi che erano chiusi, reso possibile dall’Art Bonus e da un finanziamento del PAM, ha lasciato murature a mattone a vista. Sembra il luogo ideale per ospitare le opere della collezione di artisti americani del XX secolo dei Panza di Biumo, donate ai Musei Civici: ci si trova in un mondo totalmente diverso, non privo di fascino nella nudità dei muri e nelle grandi tele bianche dei quadri, nelle installazioni. Fascino tutto contemporaneo, che forse non sarebbe piaciuto a Fortuny. Ma chissà: era un grande sperimentatore.