Il centrodestra accusa il governo di aver costretto il Paese al lockdown totale, anche se i tecnici non lo avevano inizialmente consigliato. E pure di volersi tenere nei cassetti tutti gli altri verbali ancora non pubblici. Compresi quelli su Alzano e Nembro su cui Matteo Salvini ha cominciato a suonare la carica pur di salvare Regione Lombardia dalle sue responsabilità rispetto alla mancata chiusura. E che dire degli altri sospetti attorno ai documenti ormai noti? Sul verbale del 7 marzo c’è scritto, nella trasmissione dal Cts al ministero della Salute, “riservato”, cioè “classificato”, ed è firmato dal generale Francesco Bonfiglio, capo del Punto di controllo Nato – Ue, uno degli organi preposti alla tutela delle informazioni Ue “classificate”. Ed è scattato il giallo.
La Protezione civile ha sempre sostenuto che i verbali non fossero stati “classificati”. “A via Vitorchiano, dove si riunisce il Cts, esiste una sala i cui operatori hanno delle qualificazione di sicurezza particolari e che viene usata per inviare o ricevere comunicazioni quando viene attivato il Meccanismo di protezione civile europeo. Abbiamo usato quel canale ancorché i verbali in questione non siano mai stati segreti”, minimizzano dal Dipartimento della Protezione civile. Insomma non si tratterebbe di informazioni classificate, nonostante la stampigliatura “riservato” desti qualche sospetto.
In tutto, sono oltre 100 i verbali del Cts. Da quando ai primi di febbraio è stato istituito come organo di consulenza del Capo Dipartimento della Protezione civile (che il governo ha nominato coordinatore dell’emergenza coronavirus), si è riunito a ripetizione. Per dare pareri sulle questioni più varie: dalle norme di comportamento da usare nelle Università, al tipo di ventilatori più idonei per il Covid, passando per le prescrizioni per tornare a celebrare le funzioni religiose garantendo la massima sicurezza sanitaria. Nei 5 verbali vergati tra il 28 febbraio e il 9 aprile, oggetto delle richieste della Fondazione Einaudi non c’è nulla però di inedito. Si va dal suggerimento al governo di “due livelli di misure di contenimento da applicarsi” per le tre Regioni dove il Coronavirus si stava maggiormente diffondendo allo stop a baci e abbracci e all’obbligo di mascherina per chi si trovava ad assistere persone malate.
E allora perché la Presidenza del Consiglio si è opposta all’accesso agli atti innescando il ricorso al Tar, oltre che le polemiche? Quando a inizio marzo sono cominciate ad arrivare le prime richieste di accesso agli atti, Palazzo Chigi ha ritenuto che tali documenti dovessero ricadere tra quelli di cui non è consentito l’accesso, in applicazione di una norma del 2011. Un decreto del Presidente del Consiglio, all’epoca Silvio Berlusconi, che presumibilmente doveva servire a scongiurare un altro caso L’Aquila: quando i membri della Commissione “Grandi rischi”, a causa delle loro dichiarazioni messe a verbale, divennero oggetto della richiesta di risarcimento del danno da parte dei parenti delle vittime del sisma del 2009. Il Dpcm 143 del 2011 sottrae quindi all’accesso gli atti e i documenti “concernenti il lavoro di commissioni, organi collegiali, comitati, gruppi di studio e di lavoro, qualora finalizzati all’adozione di atti normativi, di atti amministrativi generali e di atti di pianificazione e di programmazione”.
Per Palazzo Chigi quella norma doveva applicarsi anche per il Cts. Tesi che però è stata respinta dal Tar e ora pare superata dai fatti. Come fa notare Vittorio Alvino, presidente della Fondazione Openpolis che da sempre è impegnata nella difficile battaglia sulla trasparenza come valore fondante della partecipazione democratica: “Se ora hanno potuto superare le norme del 2011, vuol dire che è possibile rendere pubblici tutti i verbali, senza bisogno si aspettare un altro accesso agli atti”.