Aspettando la prossima Apocalisse

MASSIMO GIANNINI

In un giorno di ordinaria Apocalisse italiana, può succedere che 626 millimetri di pioggia feriscano il cuore fragile del Nord-Ovest del Paese. Il tragico copione è sempre lo stesso. Alluvioni, fiumi che esondano, terre che franano, case che crollano. E dunque morti e feriti, dispersi e sfollati. Nel 1998 toccò a Sarno, in Campania, 22 anni e 160 vittime fa. Nel 2014 toccò a Genova, sommersa dal fango del Bisagno, dello Sturla, del Fereggiano, replica di troppi disastri già vissuti nel 1945, nel 1970, nel 1993, nel 2012. Nel 2018 toccò a Cagliari, con le frazioni di Santa Lucia di Capoterra e Tertenia devastate e con l’acqua alla gola. Stavolta tocca al Piemonte, con la furia del Tanaro ingrossato dalle piogge che devasta il Cuneese, la Val Sesia e i comuni vicini (come già nel 1994, quando lo stesso Tanaro, il Po e molti loro affluenti uccisero 70 persone nelle province di Cuneo, Torino, Asti e Alessandria). Quante volte dovremo ancora piangere i caduti di una maledetta “guerra” che non sappiamo combattere?

Paghiamo un prezzo intollerabilmente alto ai cambiamenti climatici. Che ci sono, ci assillano e ci obbligano a ripensare il nostro rapporto con il pianeta che abitiamo e il nostro modo di vivere, di produrre, di consumare. Ma fatti e numeri parlano chiaro, come ci ricorda Mario Tozzi. Se in un secolo abbiamo subito 17 mila frane, e se ogni anno ne contiamo una ogni 45 minuti, non possiamo lavarci la coscienza pensando che tutto dipenda solo dalla Natura, non più Madre ma Matrigna «che di tanto inganna i figli suoi».

Non possiamo illuderci che queste sciagure, che ci funestano la vita dai primi del ‘900, capitino solo per il cortocircuito meteorologico indotto dal riscaldamento globale, dai gas serra, dalle emissioni di Co2. Questo tempo, furente e inclemente, si accanisce non da oggi su un “luogo” incapace di accoglierlo, limitandone l’impatto e riducendone il danno.

Quel “luogo” è l’Italia, abitata da un ceto politico cinico e irresponsabile, nazionale e locale, che non ha pensato per decenni alla tutela del territorio, e che quando ha iniziato a farlo non ha quasi mai saputo tradurre piani faraonici in interventi concreti. Non serve andare troppo indietro col calendario. Nel 2014 il governo Renzi vara il progetto «Italia-Sicura» contro il dissesto idrogeologico, che prevede 9,8 miliardi di investimenti: tre anni dopo ne risultano spesi cento milioni. Nel 2018 il Conte Uno segue a ruota, con l’apposita Struttura di Missione al ministero dell’Ambiente, poi la Cabina di regia «Strategia Italia», poi la prima legge di bilancio con 14,4 miliardi ai comuni «per la messa in sicurezza degli edifici e del territorio» nel periodo 2021-2034, e infine il Dpcm «Proteggi Italia» del 20 febbraio 2019, con altri 10,9 miliardi per la «mitigazione del rischio idrogeologico». Cosa è cambiato? Chi ha visto i cantieri? Dove sono le opere? Regioni e comuni battono cassa ogni volta, denunciando «calamità naturali» e invocando «stati di emergenza». Roma stanzia risorse. Che fine fanno, nessuno lo sa perché nessuno lo dice. E avanti così, fino alla prossima catastrofe.

Ma quel luogo, l’Italia, è anche abitata da noi cittadini comuni. Se il «consumo» di territorio avanza davvero al ritmo insopportabile di un metro quadrato al secondo, se dal dopoguerra il tasso di cementificazione è quadruplicato, se di questo passo entro i prossimi vent’anni avremo coperto di calcestruzzo un’area pari al Friuli Venezia Giulia, ebbene, la responsabilità è solo nostra. Chiediamo sicurezza, pretendiamo servizi, protestiamo inefficienze. Ma spesso siamo in prima linea a violare regole, a compiere piccoli e grandi abusi edilizi, a costruire dentro i centri storici, lungo gli argini di fiume o sotto montagne o colline. E avanti così, fino al prossimo condono.

Siamo solidali con le popolazioni colpite da questo disastro, che vanno soccorse e sostenute in tutti i modi possibili. Siamo vicini al presidente della Regione Cirio, che chiede aiuto al governo. Siamo contenti che in un’altra zona critica della Penisola, Venezia, il Mose abbia funzionato e abbia fermato l’acqua alta. Ma di una diga, per proteggere la Serenissima, si cominciò a parlare nel 1966. Per vederla all’opera ci sono voluti 56 anni. Non possiamo aspettarne altrettanti, se vogliamo davvero salvare il Belpaese.

 

 

www.lastampa.it