Arte e storia Nel giugno del 1432 si combattè la Battaglia di San Romano, con la vittoria di Firenze su Siena Sei anni dopo Paolo Uccello ne dipinse le gesta in un Trittico: un irripetibile gioco di forme, colori e prospettive

Quel sigillo del Rinascimento

di Francesco Guerrieri

«Non ebbe altro diletto che d’investigare alcune cose di prospettiva difficili e impossibili», così un ingeneroso Vasari nella Vita di Paolo Uccello. Paolo di Dono di Paolo (1397-1475) fu artista geniale, incompreso dai suoi compagni d’arte, umile, che non guardò mai al guadagno, i cui «ghiribizzi» lo fecero più povero che famoso. Amico di Donatello, ebbe proprio da lui un giudizio spiacevolmente sarcastico; così lo stesso Vasari: «Dicesi che essendogli dato a fare sopra la porta di S. Tommaso in Mercato Vecchio lo stesso santo (…) fece fare una serrata di tavole, acciò nessuno potesse vedere l’opera sua se non quando fusse finita». Finita l’opera, «trovandosi poi una mattina Donato per comperar frutte in Mercato Vecchio, vide Paolo che scopriva l’opera sua; perché, salutandolo cortesemente, fu dimandato da esso Paolo, che curiosamente desiderava udirne il giudizio suo, quello che gli paresse di quella pittura. Donato, guardato che ebbe l’opera ben bene, disse: — Eh, Paolo, ora che sarebbe tempo di coprire, e tu scuopri».

Facezie e qualche ironia non mancarono nemmeno nei tempi successivi. Raffaello Borghini, ad esempio, intellettuale molto temuto, nel Riposo (1584), «favellando» de’ più illustri pittori e scultori, così ricordò Paolo Uccello: «Ben fu nel pigner l’uom, Paol felice;/Ma nel far gli animai col suo pennello / Volò tant’alto, che non pur d’Uccello / Cognome meritò, ma di Fenice».

La verità è che il bravo Paolo seppe sempre ben incassare critiche e scherzi, largamente appagato dai suoi studi di prospettiva. Quando morì, lasciò una figlia e la moglie; la quale «soleva dire — è ancora Vasari — che tutta la notte Paolo stava nello scrittoio per trovare i termini della prospettiva, e che quando ella lo chiamava a dormire, egli le diceva: — Oh che dolce cosa è questa prospettiva! — Ed in vero s’ella fu dolce a lui, ella non fu anco se non cara ed utile per opera sua a coloro che in quella si sono dopo di lui esercitati».

Ma tratteggiato sommariamente il suo carattere, è ora di parlare del Trittico della Battaglia di San Romano . Un’opera oggi smembrata per il mondo, che possiamo considerare il capolavoro della sua vita e il più identitario della sua rivoluzione figurativa. Ma non prima di aver ricordato che Firenze ebbe a che fare con numerose battaglie, con Siena, Arezzo, Pisa e i loro alleati, per anni. Prima della Battaglia di San Romano (1432), cavalli e cavalieri si erano scontrati a Montaperti (1260), alla Meloria, a Campaldino, a Montecatini, all’Altopascio, a Cascina; e dopo San Romano ad Anghiari (contro i milanesi), a San Vincenzo, a Gavinana (si ricordi il Ferrucci con l’esercito imperiale-pontificio e, ancora a Scanagallo (Foiano della Chiana, 1554). Battaglie e luoghi che furono oggetto di una meritoria pubblicazione del compianto Alessandro Coppellotti, Carlo Carbone e Scilla Cuccaro, in un Quaderno della Regione Toscana.

«Ed in Gualfonda — ci dice il Vasari, intendendo l’attuale via Valfonda — particolarmente nell’orto, che era de’ Bartolini e in un terrazzo, di sua mano quattro storie in legname (il supporto) piene di guerre, cioè cavalli e uomini armati con portature di que’ tempi bellissime». Effettivamente, quelle «battaglie» furono commissionate da Lionardo Bartolini Salimbeni che vi aveva partecipato; l’opera fu poi portata nella loro Villa di Quinto, dove la vide Lorenzo il Magnifico che se ne invaghì irresistibilmente, così da riuscire ad averla, nel 1484. Alla morte di Lorenzo fu verbalizzata presente nella «camera grande terrena di via Larga» in Palazzo Medici.

Dunque, sei anni dopo la Battaglia di San Romano (1° giugno 1432), il quarantenne Paolo Uccello ne dipinge le gesta. Aveva già alle spalle apprezzati lavori allo Spedale di San Matteo e in Annalena (perduti), gli affreschi di S. Maria Novella, nonché il collaudo del monumento in verdeterra di Giovanni Acuto in Santa Maria del Fiore: con una postura equestre che non poteva non muovere dalla stimolante suggestione del Marc’Aurelio romano. Questo combattimento consumato fra Niccolò da Tolentino (per Firenze) e Francesco Piccinino (per Siena) fu uno scontro di cavalleria pesante ove furono impegnati e in parte massacrati, quattromila cavalli e duemila fanti che si fronteggiarono per più di sei ore. Paolo Uccello la raffigurò in tre grandi dipinti, oggi per il mondo, alla National Gallery di Londra, agli Uffizi e al Louvre: il Trittico ricomposto occuperebbe dieci metri di base per 1,80 di altezza. Nel primo Niccolò da Tolentino alla testa dei Fiorentini , nel secondo il Disarcionamento di Bernardino della Ciarda , nel terzo Michele Attendolo a fianco dei Fiorentini .

Si tratta del capolavoro forse più rivoluzionario del Rinascimento. Guerra e battaglia diventano un gioco: un grande irripetibile gioco di forme, di colori di prospettive! Mai s’era vista una battaglia sanguinosa convertirsi in un torneo a festa, mai tante armature, balestre, giavellotti e cavalieri a comporre un sogno estatico che, francamente, poco a che fare sembra avere con l’idea di «tardo gotico» a cui si è voluto associare. Queste libere composizioni sembrano piuttosto prospettare singolari esercitazioni di «perspectiva naturalis» con diversi punti di fuga contigui, quale libera evoluzione della rigorosa prospettiva teorizzata prima da Brunelleschi e poi dall’Alberti. Paolo Uccello, insomma, non si limitò a fondere «antiche idealità e nuovi mezzi d’indagine» come ebbe a dire Alessandro Parronchi che lo studiò a fondo, ma volle esplorare nuovi spazi, anche astratti, personalissimi, di una sorprendente modernità. Anche i surrealisti del ‘900 (si pensi a Magritte e alle sue inversioni cromatiche) seppero superare ogni razionalità nella rappresentazione, espungendo la dittatura della ragione per aprirsi a un universo alternativo, a un sogno scevro da ogni preoccupazione estetica e morale. Ebbene, dove trovare altrettanta libertà figurativa e di pensiero come in quest’opera di Paolo Uccello nell’ordinato e razionale Rinascimento? Nella vasta letteratura artistica sull’età dell’umanesimo, questo trittico di Paolo Uccello va, forse, criticamente rivisitato, riconoscendogli un ruolo a se stante, vero e proprio «sigillo» di un’autonomia intellettuale della stagione dei grandi «cancellieri umanisti».

 

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