Altro che risanamento, Mps è come l’Alitalia: i veri dilemmi del ministero del Tesoro

 

  • Il Tesoro deve vendere Mps non perché lo imponga l’accordo con la Commissione stipulato al momento della ricapitalizzazione “precauzionale” con cui salvò la banca nel 2016, ma perché Mps non è sufficientemente patrimonializzata (senza la garanzia del continuo sostegno pubblico) e redditizia per assicurare la continuità aziendale.
  • Mps è sottodimensionata, inefficiente e poco redditizia per rimanere indipendente.
  • Un altro buco nero come Alitalia. Senza cessione o un’ulteriore ricapitalizzazione pubblica c’è la risoluzione, che dimostra quanto il salvataggio del 2016 sia servito soltanto a rinviare il problema.

Il ministro di un governo a guida Pd salva Mps dal dissesto facendo entrare lo Stato nell’azionariato e si fa eleggere in parlamento nelle file del Pd nel collegio di Siena. Poi diventa presidente di UniCredit e lascia il seggio vacante, per il quale si candida l’attuale segretario dello stesso partito, Enrico Letta. Non dovrebbe meravigliare che l’avvio di una trattativa per l’acquisto di Mps da parte di UniCredit abbia riacceso le polemiche sui legami storici tra la sinistra, la banca, e le strutture politiche e sociali locali. Una storia ben nota e raccontata molte volte. Basterebbe questo per auspicare una rapida cessione e l’uscita definitiva dello Stato.

Invece sono cominciate le litanie affinché si mantenga in vita la banca col suo il marchio Mps e il radicamento territoriale, si evitino lo spezzatino (anche se non si sa bene che cosa voglia dire), gli esuberi, il salvataggio coi soldi dei contribuenti, e via discorrendo. Toni tragici per una realtà che assomiglia ai titoli di coda di una pochade.

Il Tesoro deve vendere Mps non perché lo imponga l’accordo con la Commissione stipulato al momento della ricapitalizzazione “precauzionale” con cui salvò la banca nel 2016, ma perché Mps non è sufficientemente patrimonializzata (senza la garanzia del continuo sostegno pubblico) e redditizia per assicurare la continuità aziendale.

Non c’è molto da discutere. O lo Stato fa un ultimo esborso di capitali a favore di Mps strumentale alla sua cessione, e mette la parola fine a questo salasso; oppure dovrà comunque fare un esborso (si prevede un aumento da 2,5 miliardi nel caso non venga ceduta) per continuare a operare stand alone, ma che difficilmente sarà l’ultimo perché Mps è sottodimensionata, inefficiente e poco redditizia per rimanere indipendente. Un altro buco nero come Alitalia. Senza cessione o un’ulteriore ricapitalizzazione pubblica c’è la risoluzione, che dimostra quanto il salvataggio del 2016 sia servito soltanto a rinviare il problema.

NON SOLO ANTONVENETA

Si ripete che all’origine delle disgrazie di Mps ci sia l’acquisizione di Antonveneta nel 2007. Vero solo in parte. Se si paga troppo per una buona società, si sopporta solo un costo una tantum quando si svaluta l’acquisto, ma poi si incassano gli utili che la società produce nel tempo.

Acquistando Antonveneta invece, Mps non solo ha pagato troppo, ma si è accollata una montagna di prestiti clientelari che hanno generato soltanto sofferenze, e che si è andata ad aggiungere alla propria gestione clientelare del credito.

Con Antonveneta i prestiti sono così aumentati da 92 miliardi nel 2006 ai 135 del 2008, proprio alla vigilia della grande crisi e poco prima quella del debito pubblico del 2011 che, oltre all’impatto della recessione sulle sofferenze, hanno fatto anche emergere tutte le porcherie in bilancio di Mps. Ora del 2016 i crediti deteriorati al lordo degli accantonamenti fatti (ma del tutto insufficienti), erano arrivati al 30 per cento del totale dell’attivo e a oltre la metà dei prestiti. La banca era fallita.

Per evitare che Mps andasse in risoluzione, il governo ottenne dalla Commissione il permesso di salvare la banca con una ricapitalizzazione, tramite la quale lo Stato saliva al 60 per cento, a condizione di privatizzarla entro il 2021, una volta risanata. Ma a tutt’oggi la banca non è stata risanata perché lo Stato è un azionista che è condizionato dalla ricerca del consenso intrinseca alla politica, e perché il buco vero era molto più grande.

NON È AFFATTO RISANATA

Nel primo semestre di quest’anno Mps dichiara un utile da 200 milioni, e calcola che, sulla base del risultato finale, l’ammanco di capitale a giugno 2022 sarebbe di “appena” 500 milioni. Risanata? Non proprio a ben vedere. L’ammanco di 2,5 miliardi è coerente con i risultati degli stress test in cui il patrimonio della banca viene azzerato nello scenario avverso.

La struttura di Mps rimane eccessivamente costosa: i costi amministrativi e del personale rappresentano il 74 per cento del margine di intermediazione (al netto dei profitti da trading che sono volatili) rispetto al 54 medio stimato nel 2021 per Intesa e Unicredit. Anche dopo l’accordo con l’ex socio Fondazione, rimangono circa 6 miliardi di rischi legali, molti classificati come probabili.

Nonostante la cessione di 7 miliardi di crediti deteriorati alla Amco, pure questa dello Stato, ne rimangono altri 4 in bilancio a prezzi (36 e 64 centesimi rispettivamente per sofferenze e inadempienze probabili) che sono superiori a quelli presumibili di cessione, senza contare le possibili ricadute dalla crisi da Covid. E l’utile da 200 milioni per 179 è dovuto a profitti da trading, intrinsecamente instabili, 59 di imposte negative (crediti di imposta), e una poco convincente riduzione degli accantonamenti.

Ma, soprattutto, Mps ha soddisfatto i requisiti patrimoniali non tanto risanando la gestione e accumulando utili nel tempo, ma prevalentemente con operazioni per ridurre il rischio degli attivi, a scapito della sua redditività, e quindi sostenibilità.

Così a fronte di 145 miliardi di attivi, quelli pesati per il rischio sono appena 49; i prestiti alla clientela sono 81 (molti mutui che assorbono poco capitale, ma che rendono meno), mentre tutto il resto sono depositi presso la Bce e titoli di stato il cui margine per la banca è pressoché nullo.

La cessione è pertanto una strada obbligata e UniCredit è l’unica banca italiana (che in quanto tale ha un interesse relazionale col Tesoro) grande a sufficienza per poter beneficiare della dote dei 2,6 miliardi di crediti di imposta e, ai prezzi correnti, dei circa 5 di badwill (profitto contabile pari alla differenza tra prezzo pagato e patrimonio netto). Dover vendere a un unico compratore non è la migliore posizione negoziale per il governo, ma la responsabilità è dei suoi predecessori.

IL DILEMMA

O il Tesoro vende l’intera banca Mps a UniCredit, pagando una dote e tenendosi rischi legali, esuberi e sofferenze residue; oppure le cede un ramo di azienda composto da sportelli, crediti, depositi e masse in gestione e si tiene quel che resta di Mps, molto rimpicciolito, oltre a sofferenze e rischi legali. Se questa seconda alternativa fosse “lo spezzatino”, sono anche io per il no: resterebbero, amplificati, tutti i problemi di Mps e gli intrecci pericolosi con la politica locale.

Quanto al mantenimento del marchio e dell’indipendenza di Mps, è illusorio chiederlo a UniCredit nata proprio dalla fusione di tante banche locali. Sarebbe la sorte di Mps.

Infine, le polemiche per l’ennesimo salvataggio coi soldi dei contribuenti. Le crisi bancarie del 2008 e 2011 erano sistemiche e in quanto tali i capitali privati erano insufficienti ad affrontarle. Tutti gli Stati, a cominciare da Usa, Germania, Francia, Spagna e UK , sono dovuti così intervenire a ricapitalizzare le loro banche, assorbendone le perdite. Unica eccezione l’Italia perché tutti i governi italiani, da Monti in poi, non hanno voluto accettare le condizionalità che questo intervento avrebbe probabilmente comportato.

Lo hanno fatto lo stesso, ma con interventi estemporanei, mascherati, diluiti nel tempo, sull’onda dell’emergenza, senza una precisa strategia. Quello di Mps è dunque la coda (si spera) di quello che si sarebbe dovuto fare 10 anni fa. Inutile scandalizzarsi ora. Meglio tardi che mai.

 

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