Addio a Emilio Ravel,senese che raccontò l’anima del Palio in Rai.

Emilio Ravel — Raveggi all’anagrafe — è stato una presenza costitutiva della televisione pubblica. Da caporedattore di Tv7 dette la misura del suo gusto per un giornalismo raccontato con estro narrativo, ma senza clamore. Senese della Selva, il gentiluomo Ravel coltivava il gusto toscano del bozzetto arguto e dell’aneddoto fulminante, ricercando nei retroscena la verità nascosta degli avvenimenti. Si divertiva a chiamare alla ribalta quanto stava nell’ombra, il marginale che aveva il sapore dell’inedito. Il suo amore per lo spettacolo non aveva nulla a che vedere con la spettacolarizzazione vociante e scandalistica poi dilagata. Elegante e rispettoso, Emilio sapeva tagliare da maestro interviste e inchieste. Basterà citare, tra le tante sue memorabili trasmissioni, Odeon , il cui sottotitolo era una dichiarazione di poetica: «tutto quanto fa spettacolo». Ma non è questa la sede per ripercorrere una carriera lunga e densa di successi. Entrato, ventenne, in Rai, nel 1953, appena poteva dava spazio ai paesaggi preferiti e alle usanze antiche. Per il Palio provava un’attrazione smisurata. Dal 1994 fino al 2012 ne fu il cantore ufficiale, anche se ne aveva già fatto oggetto di preziose indagini. Si ostinava a portare in evidenza ciò che stava dietro e dava vigore alla rapida contesa e alla splendida festa. Sicché nelle sue telecronache inseriva filmati — microdocumentari girati con affettuoso scrupolo — con interviste, luoghi, autori, temi, che lo legavano alla vita segreta della città. In una delle prime trasmissioni lo spiegò come un’antiolimpiade dominata dalla Fortuna, intrattenendo sui machiavellismi e i trucchi che insaporivano la celebrazione. Era, la sua, un’antropologia alla buona, offerta su un piatto d’argento, essenziale e rigorosa. Le abitudini e i ritmi delle Contrade lo affascinavano quanto i colpi di scena nel Campo. Le rivalità accanite quanto il cordiale ritrovarsi: uniti perché divisi. Emilio indossava spontaneamente, con cortesia anglosassone, i panni del regista esigente. Nulla lasciava al caso. Ci ha regalato anche libri che si sfoglieranno con piacere e sembrerà di ascoltare la sua voce pacata e sommessa. Il diavolo a Firenze (1987) sintetizzò la sua nostalgica predilezione per le atmosfere ovattate e ambigue di una volta. Si cimentò da cronista con la storia. I l tumulto dei Ciompi (1978) lo costruì come un reportage diaristico. E immaginò un discorso di Francesco D’Agnolo detto «Barbicone», il mitico capo della rivolta senese che si scatenò nel Bruco nel 1371 annunciando quella più famosa dei Ciompi, prestandogli ironico un lessico aspro e attuale: «Perché dobbiamo essere comandati, disciplinati e anche giudicati dall’Arte della Lana che è l’organizzazione dei nostri stessi padroni?». Una rivolta che fece sobbalzare i nobili increduli: spettatori d’improvviso svegliati dal sonno .

 

Mercoledì 14 Febbraio 2018, Corriere Fiorentino. corrierefiorentino.corriere.it/