Il punto G del G20, il luogo inafferrabile, quello del godimento supremo, è che del G20 non frega a nessuno. Chi si ostina a scrivere che “Roma… torna a farsi davvero caput mundi” – “la Repubblica”, 29 ottobre, pagina 14, però, non ci credono neppure loro– lo fa per protervia giornalistica: per il resto del mondo, semmai, Roma è cap ’o cazzo, per dirla alla napoletana. I giornali statunitensi reputano la sortita italiana di Biden alla stregua di una vacanza romana: non ne parlano. Il “NY Times”, per dire, è interessato a rimestare negli affari sessuali di Andrew Cuomo, a misurare la verga in bilioni dei concittadini più ricchi, a raccontare il rebranding di Facebook, trasmutato in Meta. In generale, i quotidiani anglofoni – mettiamo nel mucchio, chessò, “The Times”, “Guardian”, il “Telegraph” – sono più interessati alla COP26 che si svolgerà a fine mese a Glasgow e sarà – come il G20 – generosamente inutile ai fini di chi, come noi, non ha un castello sul lago di Loch Ness. Per altro, i giornali francesi sono interessati ai fatti loro, come sempre (le prossime presidenziali); quelli tedeschi si spremono sulle crisi interne (produzione di auto e Coronavirus in aumento).
Il G20, più che altro, come sempre, serve a giustificare il potere, a ostentarlo in pubblico: è una passerella, come quella degli imperatori romani di ritorno dalle campagne teutoniche, o d’Oriente; infine, è una cartolina. La tracotanza, il delirio del comando, il destino di un’idea sono sviliti a colpi di sorrisi, cronaca di strette di mano, ipocrisia al profumo di rose, l’istituto del grigiore e della menzogna. Il G20 serve ai giornali e ai giornalisti – per lo più servili –, all’acquazzone di foto: emblema di governi disorientati, ritualizzati da liturgie sonnambule, alieni dall’ammutinamento del tempo.
A leggere gli aurei proclami divulgati dal sito specifico – scritti a misura di cretino – si resta allibiti. Alla voce “Istruzione” si legge:“Fra le priorità che verranno affrontate durante la Presidenza italiana, la riduzione del divario digitale e gli strumenti offerti dalla digitalizzazione per ampliare i canali di collegamento fra formazione e mercato del lavoro”. Per carità di dio! Il digitale – da imparare, capire, maneggiare – sta forgiando studenti inebetiti dall’ovvio, intimoriti dalla vita: bisogna insegnare i nomi delle piante, piuttosto, a capire cosa, in un bosco, è commestibile o no, e poi saper accendere un fuoco, costruire una sedia, fornire i minimi elementi che rendano un uomo autonomo – del cittadino obbediente e mediamente abbiente non ce ne facciamo più nulla. Ma saremmo scemi a prendere per oro parole scaturite dal vocabolario convenzionale, supremo per vaghezza. Così, alla voce “Commercio e investimenti” siamo informati che “L’obiettivo principale per il 2021 sarà quello di favorire la ripresa e di superare gli impatti della pandemia” (ma davvero?, e noi che si pensava di favorire la crisi, di titillare il caos, di fomentare l’apocalisse). Alla voce “Transazione Energetica e Sostenibilità del Clima” sbuca la promessa di “costruire un futuro resiliente e garantire la prosperità” (cosa sia il futuro resiliente lo sveleranno i magi governativi). Naturalmente, si parlerà di “questioni climatiche”, del “rapporto fra cultura e cambiamenti climatici”, tentando di favorire “una rapida ripresa del turismo internazionale”. Si firmeranno tanti accordi, davanti a un plotone di fotografi e di lacchè; alcuni rilasceranno interviste intriganti per difetto, piene di buone intenzioni e di dichiarazioni ‘esclusive’; i potenti faranno sentire il loro celestiale odore ai convenuti, consapevoli, tutti, che le trame della diplomazia si intrecciano in altri campi, nell’invisibile, che la strategia è il fulcro dell’azione di un governo, altro che ipocrita irenismo in piano americano, che mors tua vita mea. Nonostante, con patetica pervicacia, le notizie pubbliche ci ricordino che il G20, degno mostro del mondo della statistica, rappresenta i paesi che insieme fanno l’80% del PIL mondiale e il 75% del commercio estero – il che, se pensiamo che gli Stati, nel mondo, sono dieci volte di più, dovrebbe farci inorridire – la grandezza di uno Stato è costituita dal ‘compito’ che si prefigge, che gli indica la propria Storia, e dal coraggio con cui lo persegue, non dal reddito. D’altronde, Xi, imperatore di Cina, a Roma non ci sarà, dunque, chissenefrega. L’imponente dispiegamento di forze di polizia, piuttosto, ci ricorderà, come è giusto, che il potere è primariamente militare.
Quanto al resto, siamo abbastanza vecchi per sapere che il potere, quello vero, è invisibile, non ha bisogno della ‘piazza’: i politici che mendicano voti in tivù non sono potenti, ma dipendenti. L’abominio dei social ha dimostrato, per effetto contrario, che i potenti non sono mai stati così distanti, insondabili, intoccabili, che il potere non ci pertiene, che restiamo un pollaio di elettori impotenti. I social, latrina pubblica, specie di corrida, di rodeo e di eterno gioco gladiatorio, danno l’idea al povero cristo di poter discutere, vedere, parteggiare per il potente, idolatrato: perfino di poterlo prendere a pedate. Pia illusione: più ti senti prossimo al potente, più scopri che sei incarcerato in uno spettro di morgane, di specchi obliqui, di infingardi.
Che fare di fronte al predominio del consueto, alla funesta fioriera del bla bla, a chi si permette di trattarci come funzioni, come miseri? Girare le spalle. Ambire all’eroismo della disciplina solitaria. Inibire a belato le sirene di chi ci vuole soldati di questo tempo, di questo mondo. Sfiancare con l’anacronismo dell’eremitaggio, con l’aristocrazia delle scelte estreme chi ci desidera figli del rancore, buoni&giusti, bonificati da uno stipendio minimo. Destinare al mercimonio delle chiacchiere, alla perizia dei competenti chi parla di pensioni, ambiente, lavoro. Per eccesso di patriottismo, dimenticare la patria; per reazione, rasarsi il capo e stabilirsi nel martirio, perché fare lo scalpo a questi è prassi inferiore, nessun nemico ci è pari né è in grado di pareggiare il nostro desiderio, feroce e bianco.
Nel 1969, a Ginevra, presso Claude Martingay, uscì un libro a firma di “un monaco”, nel fiero anonimato, intitolato L’eremo. Spiritualità del deserto. È una specie di codice, persuasivo per la necessità aspra dell’ascesi, passato in Italia, per Queriniana, nella traduzione di Enzo Bianchi, era il 1974. È un libro atroce e crudo, fin da subito:
“L’entrata nel deserto è sempre un momento solenne. Lascia il mondo normale delle relazioni sociali per l’ignoto della solitudine. Bisogna iniziare con distacchi, dolori e rinnegamenti. Questa universale e definitiva rottura con ciò che ci era più caro non si può compiere senza lacrime… Getta via tutto e sii pronto. Le precauzioni, le scappatoie renderanno più costosi sacrifici ai quali un giorno bisognerà acconsentire”.
Solenne inattualità del libro, piuttosto, abbecedario per uomini liberi, per chi predilige le vie insolite, appena intraviste, pericolose – il deserto lo si trova dietro l’angolo, in una stanza trafitta di candele, tra una stamberga d’ombre. Lo riconosceva, a metà anni ’70, pure Enzo Bianchi: “Occorre essere veramente poco prudenti per proporre oggi un libro di spiritualità eremitica, un libro che è un elogio della solitudine scelta come luogo privilegiato per la ricerca di Dio”. Il libro, appunto, è punteggiato di spine, non propone una spiritualità ispirata dalle mode, improntata a una beota beatitudine; il libro prepara alla lotta, per lo più insiste su una postura, su uno stare di sbieco – o meglio: fieramente in piedi – al cospetto del mondo.
“L’obbedienza ti salverà dalle divagazioni del romanticismo spirituale. Colui che vaga nelle solitudini alla ventura è perduto”
“Tu stesso proverai un impulso ad indietreggiare sull’orlo dell’abisso. Non è senza un certo spavento che si abbandonano a Dio tutte le leve che comandano l’ordine del nostro mondo interiore di cui noi siamo gelosi”
“I libri non ti insegneranno che poche cose sulle vie della contemplazione. Esse sono semplici e dirette: morire al mondo e a se stessi, vivere nella più grande solitudine e raccoglimento, lasciare a Dio tutta l’iniziativa. Il resto è opera tua. Preparati ad una coraggiosa ascesi”
“Difenditi con energia contro l’anchilosi della routine”
“La memoria e l’immaginazione rendono ancora più sensibile l’impazienza della privazione e il demonio ha presa diretta sulle nostre facoltà sensibili. Non è raro che i più puri siano in preda alle tentazioni più inconfessabili”
Non si tratta di fuga dal mondo, ma di una intollerante esigenza di vita. Certo, sventolare l’eremo di fronte ai padroni del mondo può apparire velleitario. Diciamo che è un modo per ribadire le altezze, per datare le vertigini – di solito, crediamo importante l’effimero, ci sentiamo incapaci perché prendiamo per oro la polvere.