L’argine della Bce

di Francesco Giavazzi

 

Martedì i mercati sono stati scossi da un improvviso aumento del differenziale fra il rendimento dei nostri Btp decennali e quello degli analoghi titoli pubblici tedeschi. Lo spread è balzato da 270 a 330 punti. Come se quello che sta succedendo alle Borse di tutto il mondo, per non pensare al Covid-19, non bastasse a tenerci svegli. Qualche movimento si era visto anche settimana scorsa. Lo spread italiano era passato da 200, il livello intorno al quale si era aggirato dall’autunno scorso, a 270 giovedì 12 marzo. Ma in quel caso c’era un legame con la conferenza stampa di Christine Lagarde. La presidente della Bce aveva detto: «Non è il compito della Bce ridurre gli spread». Martedì mattina improvvisamente, quando si è passati da 270 a 330 di spread, i mercati sono sembrati dubitare della solvibilità dell’Italia. Hanno iniziato a domandarsi cioè se potremmo essere solventi con un livello così alto del costo del debito (gli interessi che si pagano agli investitori con uno spread di 300 punti significano un rendimento dei Btp vicino al 3 per cento); e tenendo conto sia delle maggiori spese decise per arginare l’epidemia, sia delle minori entrate dovute alla recessione in cui siamo ormai entrati.

È la stessa domanda che gli investitori si erano posti nell’autunno del 2011, quando gli spread italiani balzarono prima a 300 e poi a 500, precipitando una crisi dell’area dell’euro che si è conclusa solo con «Whatever it takes» di Mario Draghi nel luglio 2012.

Ma il debito italiano è sostenibile? A questa domanda ha risposto martedì l’ex capo-economista del Fondo monetario internazionale, Olivier Blanchard (https://www.piie.com/blogs ). Osserva Blanchard che prima dell’inizio della crisi da Covid-19, il debito italiano era pari al 135 per cento del Pil, e il rendimento dei nostri titoli decennali era inferiore all’1%. I mercati evidentemente non si preoccupavano né di un possibile default, né del rischio di ridenominazione (cioè di una rottura dell’euro). Tutto quello che il governo italiano doveva fare per mantenere stabile il rapporto debito/Pil era produrre un saldo primario (cioè un avanzo di bilancio al netto degli interessi) intorno all’1 per cento del Pil. Un obiettivo che la maggior parte degli osservatori ritiene economicamente e politicamente fattibile e che corrisponde a quanto scritto nella legge di Bilancio approvata in dicembre. Che cosa è cambiato questa settimana?

Supponiamo che le misure adottate lunedì dal governo per affrontare l’emergenza Covid-19, e la recessione che essa provocherà, comportino un aumento di 20 punti nel rapporto debito/Pil, dal 135 al 155 per cento. Per stabilizzare il debito a quel livello sarebbe necessario un aumento del saldo primario dello 0,2 per cento del Pil, circa 4 miliardi di euro. È difficile credere che ciò sia impossibile. Ma che cosa accadrebbe se i risparmiatori che acquistano i nostri titoli non condividessero questa analisi e, preoccupati, chiedessero tassi più alti come hanno fatto negli ultimi giorni? L’Italia cadrebbe in un «cattivo equilibrio» cioè una situazione in cui le aspettative si auto-realizzano. In questa situazione il debito italiano diverrebbe insostenibile.

Ma i cattivi equilibri possono essere evitati. È ciò che la Bce ha fatto l’altro ieri notte, sostanzialmente ripetendo la decisione di Mario Draghi del 2012. La banca ha detto che di qui alla fine dell’anno aumenterà di 750 miliardi il volume dei suoi acquisti di titoli dell’area euro e cancellerà — e questa è la decisione più importante — il vincolo che tali acquisti siano proporzionali alle dimensioni relative dei vari Paesi (l’Italia conta per un 13%).

Ma soprattutto ha accompagnato questa decisione con un annuncio impegnativo: «Il Consiglio direttivo farà tutto il necessario nell’ambito del suo mandato. In particolare è disposto ad aumentare le dimensioni dei suoi programmi di acquisto di attività e ad adeguarne la composizione, per quanto necessario e per tutto il tempo necessario. Nella misura in cui alcuni limiti autoimposti ostacolassero l’azione che la Bce è tenuta a intraprendere per adempiere al suo mandato, il Consiglio direttivo prenderà in considerazione la possibilità di rivederli nella misura necessaria per rendere la sua azione proporzionata ai rischi che dobbiamo affrontare».

Ieri mattina lo spread è tornato sotto quota 200 e lì è rimasto tutto il giorno. Significa che la crisi è finita? Certo che no, e infatti lo spread è sceso ma le borse ieri sono rimaste sostanzialmente stabili. Questo porta a due considerazioni. Se non ci fosse stato l’intervento della Bce oggi staremmo discutendo di un possibile default italiano e dubitando della sopravvivenza dell’euro. Almeno questo problema è stato tolto di mezzo. Seconda osservazione: la debolezza dell’unione monetaria dipende dall’essere una costruzione ancora incompleta perché la Bce non è ancora una banca centrale «normale». Questa è l’occasione perché lo diventi poiché lo shock che ha colpito l’Europa è, per una volta, uno shock simmetrico, cioè non colpisce alcuni Paesi più di altri. E shock simmetrici giustificano risposte forti e comuni.

È la stessa domanda che gli investitori si erano posti nell’autunno del 2011, quando gli spread italiani balzarono prima a 300 e poi a 500, precipitando una crisi dell’area dell’euro che si è conclusa solo con «Whatever it takes» di Mario Draghi nel luglio 2012.

Ma il debito italiano è sostenibile? A questa domanda ha risposto martedì l’ex capo-economista del Fondo monetario internazionale, Olivier Blanchard (https://www.piie.com/blogs ). Osserva Blanchard che prima dell’inizio della crisi da Covid-19, il debito italiano era pari al 135 per cento del Pil, e il rendimento dei nostri titoli decennali era inferiore all’1%. I mercati evidentemente non si preoccupavano né di un possibile default, né del rischio di ridenominazione (cioè di una rottura dell’euro). Tutto quello che il governo italiano doveva fare per mantenere stabile il rapporto debito/Pil era produrre un saldo primario (cioè un avanzo di bilancio al netto degli interessi) intorno all’1 per cento del Pil. Un obiettivo che la maggior parte degli osservatori ritiene economicamente e politicamente fattibile e che corrisponde a quanto scritto nella legge di Bilancio approvata in dicembre. Che cosa è cambiato questa settimana?

Supponiamo che le misure adottate lunedì dal governo per affrontare l’emergenza Covid-19, e la recessione che essa provocherà, comportino un aumento di 20 punti nel rapporto debito/Pil, dal 135 al 155 per cento. Per stabilizzare il debito a quel livello sarebbe necessario un aumento del saldo primario dello 0,2 per cento del Pil, circa 4 miliardi di euro. È difficile credere che ciò sia impossibile. Ma che cosa accadrebbe se i risparmiatori che acquistano i nostri titoli non condividessero questa analisi e, preoccupati, chiedessero tassi più alti come hanno fatto negli ultimi giorni? L’Italia cadrebbe in un «cattivo equilibrio» cioè una situazione in cui le aspettative si auto-realizzano. In questa situazione il debito italiano diverrebbe insostenibile.

Possibilità

L’unione monetaria

è ancora incompleta, questa è l’occasione perché lo diventi

Ma i cattivi equilibri possono essere evitati. È ciò che la Bce ha fatto l’altro ieri notte, sostanzialmente ripetendo la decisione di Mario Draghi del 2012. La banca ha detto che di qui alla fine dell’anno aumenterà di 750 miliardi il volume dei suoi acquisti di titoli dell’area euro e cancellerà — e questa è la decisione più importante — il vincolo che tali acquisti siano proporzionali alle dimensioni relative dei vari Paesi (l’Italia conta per un 13%).

Ma soprattutto ha accompagnato questa decisione con un annuncio impegnativo: «Il Consiglio direttivo farà tutto il necessario nell’ambito del suo mandato. In particolare è disposto ad aumentare le dimensioni dei suoi programmi di acquisto di attività e ad adeguarne la composizione, per quanto necessario e per tutto il tempo necessario. Nella misura in cui alcuni limiti autoimposti ostacolassero l’azione che la Bce è tenuta a intraprendere per adempiere al suo mandato, il Consiglio direttivo prenderà in considerazione la possibilità di rivederli nella misura necessaria per rendere la sua azione proporzionata ai rischi che dobbiamo affrontare».

Ieri mattina lo spread è tornato sotto quota 200 e lì è rimasto tutto il giorno. Significa che la crisi è finita? Certo che no, e infatti lo spread è sceso ma le borse ieri sono rimaste sostanzialmente stabili. Questo porta a due considerazioni. Se non ci fosse stato l’intervento della Bce oggi staremmo discutendo di un possibile default italiano e dubitando della sopravvivenza dell’euro. Almeno questo problema è stato tolto di mezzo. Seconda osservazione: la debolezza dell’unione monetaria dipende dall’essere una costruzione ancora incompleta perché la Bce non è ancora una banca centrale «normale». Questa è l’occasione perché lo diventi poiché lo shock che ha colpito l’Europa è, per una volta, uno shock simmetrico, cioè non colpisce alcuni Paesi più di altri. E shock simmetrici giustificano risposte forti e comuni.

 

 

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