Hilary Mantel Britannia addio, non sei più cool

Da ” The Crown” alla Brexit, confessioni della scrittrice in fuga da Londra
di  Antonello Guerrera
LONDRA
Farewell. Addio, Inghilterra. La regina vuole scappare. Eppure è straordinariamente inglese, dopo aver vissuto in Botswana e Dubai.
Ma ora rivela a Robinson: «Voglio diventare irlandese ed europea».
La regina si è sposata due volte, e con lo stesso marito, il geologo Gerald McEwan. Ha avuto enorme successo in vita: la sola “Trilogia di Cromwell” ha venduto 2 milioni di copie nel Regno Unito. Ma «non ho ancora trovato la pace», confessa. Perché la regina è stata afflitta da malattie, endometriosi, maledizioni. È la queen della letteratura inglese, due premi Booker vinti (con i romanzi storici Wolf Hall e Anna Bolena), come Coetzee, Carey e Atwood. Eppure la vita e la letteratura della 69enne Hilary Mantel sono infestate di fantasmi. Ecco, I fantasmi di una vita. È la turbolenta autobiografia della sontuosa romanziera, uscita nel 2003 in inglese e ora anche in Italia, grazie a Fazi. «La parola scritta può essere usata facilmente come prova contro di te», ammoniva Margaret Atwood. «È vero. Ma solo così ho imparato a vivere», ribatte Mantel attraverso i suoi occhi oceanici, dalla casa di Budleigh Salterton, sulle scogliere del Devon. E così, in questa intervista esclusiva, Mantel racconta i suoi dolori, il figlio che non ha potuto avere, la decadenza e il razzismo dell’Inghilterra, la fascinosa ossessione del passato e di The Crown, il futuro della monarchia dopo Elisabetta II, il lato oscuro della Englishness, JK Rowling e la “cancel culture”.
A questo proposito, signora Mantel, dopo le proteste di Black Lives Matter anche in Inghilterra si è parlato molto di cancel culture, ossia, secondo i suoi detrattori, quella tendenza a cancellare posizioni e passato non allineati a nuove ideologie. Rushdie, Rowling e Atwood hanno persino firmato una lettera contro la cancel culture. Lei cosa ne pensa?
«Non credo che troverà molti scrittori a favore del clima moralista, repressivo e intriso di paura che promuove la “cancel culture”».
Ma crede che, come sostiene Black Lives Matter, che il Regno Unito sia un Paese razzista?
«Secondo me, stiamo andando nella giusta direzione. La maggioranza degli inglesi non è razzista o misogino come quando ero ragazzina.
Ma quando la discriminazione sessuale o razziale si insinua alle radici delle opinioni e delle istituzioni di un Paese, servono generazioni per estirparla. Il linguaggio può cambiare in fretta. Ma il mondo reale ha bisogno di più tempo. Quindi mi sento molto vicina a coloro che chiedono azioni radicali».
Lei è uno straordinario esempio per le donne di tutto il mondo. È ottimista per il loro futuro?
«Come contro il razzismo, mi pare che la strada sia quella giusta. Ma certo non possiamo dire lo stesso per le povere ragazze afghane e per quanto sta succedendo in quella parte del mondo».
Un’altra grande scrittrice e femminista come lei, JK Rowling, negli ultimi tempi è stata accusata di essere transfoba e “terf” (transexclusionary radical feminist) dagli attivisti per i diritti gay e trans. Margaret Atwood l’ha difesa. Lei?
«Credo che gli attacchi contro di lei siano vergognosi e ingiustificabili. È barbaro che una minuscola minoranza monopolizzi il dibattito pubblico e terrorizzi coloro che sono in disaccordo. Di recente mi è stato cambiato il gender: ho ricevuto una pubblicazione universitaria in cui venivo definita con il genere “They”, “loro”, e non “she”, “lei”. I miei libri erano diventati i “loro libri”.
Ma io ci tengo molto a essere una donna. Non voglio che la femminilità mi venga sottratta. Non è un capriccio. Stavo per mandare una lettera di protesta. Mio marito mi ha bloccata: “È una moda passeggera, finirà presto”. Ha ragione».
Anni fa lei scrisse il controverso “Assassinio di Margaret Thatcher”, nel quale un uomo vuole uccidere la defunta ex premier conservatrice per i “danni fatti in Irlanda”. Anche oggi, l’Irlanda del Nord è al centro di una battaglia politica.
Scriverebbe un altro “assassinio” per i brexiter?
«Thatcher meritava l’odio e un posto nella mia narrativa. I brexiter invece sono gentucola: opportunisti puerili, falsi, mistificatori e spesso ridicoli. Meritano al massimo una barzelletta o una vignetta. Non di più».
Il Regno Unito, per alcuni, si spaccherà inevitabilmente nel prossimo futuro. Lei è preoccupata?
«Il Regno Unito è un costrutto artificioso e fragile.
Da bambina non ho imparato niente della storia delle altre nazioni del mio Paese: Galles e Scozia venivano citate solo quando gli inglesi combattevano da quelle parti. Perché per questi ultimi erano nazioni destinate a essere conquistate, inglobate dalla “più importante” Inghilterra: la loro storia è stata ridotta a narrazioni infantili per turisti. Lo stesso l’Irlanda del Nord, nei decenni considerata dagli inglesi un posto di atrocità che non meritava di essere compreso.
Anche chi ci governa è terribilmente ignorante.
Non voglio fare previsioni, ma non vedo un futuro a lungo temine per il Regno Unito».
Nelle sue opere la descrizione della “Englishness”, l’essere inglesi, è unica. Che cosa rappresenta oggi per lei?
«Posso scriverne perché non me ne sento parte. I miei genitori sono nati entrambi in Inghilterra, ma la generazione che mi ha resa ciò che sono è quella precedente: mi sono subito resa conto di appartenere a una famiglia irlandese. Vivevamo al nord dell’Inghilterra, eravamo una famiglia operaia e cattolica. Per me, invece, la Englishness ha sempre incarnato il protestantesimo, il ricco Sud inglese e una classe sociale più ricca».
«Quando ho iniziato a scrivere, ho immaginato di essere una scrittrice di provincia, nel senso buono.
Una scrittrice europea, e non inglese. Molte storie le ho ambientate in Francia e Irlanda, o tra gli espatriati. Quando iniziai a scrivere la “Trilogia di Cromwell”, era come se mi preparassi a una “invasione”: l’era dei Tudor è cruciale per l’immagine che gli inglesi danno di sé stessi. Così ho piazzato la mia bandiera in questo “territorio straniero”. Ma nemmeno Cromwell è molto inglese: abbandona il Paese da ragazzino, torna da irriducibile cosmopolita. La
Englishness per lui è semplicemente una missione».
Però la “Englishness” sembra essere ancora oggi un valore molto forte in Inghilterra.
«La correttezza e l’onestà erano gli ideali inglesi del XIX secolo. Che poi venissero messi davvero in pratica, è un altro discorso. Curiosamente, le epoche precedenti non presentano simili caratterizzazioni degli inglesi. Né gli inglesi hanno dimostrato di possederle. La Englishness è un mito creato da una certa classe sociale di una nazione colonizzatrice per convincere se stessa, come se le proprie azioni fossero moralmente giuste. Credo che l’Englishness del XXI secolo sia oggi un work in progress. Questo Paese si sente ancora al centro del mondo, sbagliando. Ci vorranno generazioni affinché il realismo faccia presa».
Ma quanto siamo ancora ossessionati dal passato in questo eterno, e ora distopico, presente? Lei ha vinto due premi Booker con una trilogia su Cromwell, le serie tv inglesi più amate come “The Crown” e “Downton Abbey” – sono ambientate in un magico passato. Come se lo spiega? Questo “soft power” culturale inglese durerà?
«Questo Paese si ciba della memoria del potere. Ma è una risorsa che sta per esaurirsi. Il governo Johnson manda messaggi contrastanti: da una parte si gonfia il petto con l’idea di “Global Britain”, dall’altra riduce il suo impegno internazionale, tagliando aiuti ai Paesi più poveri. Come se questo fosse un Paese piccolo e in declino, che non riesce più a mantenere le promesse. Odio il pensiero di essere parte dell’industria della nostalgia. O di raccontare un lato romantico della storia britannica. I miei romanzi storici invece vogliono comunicare ai lettori che molto di ciò che ci è stato insegnato non ha basi solide, né un riscontro nella realtà. E che la verità – o almeno quella parte di cui riusciamo ad appropriarci – è molto più complessa e intrigante di una leggenda. Un processo costante di rivalutazione storica è necessario».
E la monarchia inglese? Perché resta la più amata, nella realtà e nella fiction?
«Elisabetta II ha dimostrato di possedere una incredibile facoltà di incorporare la sua grandezza nell’istituzione che rappresenta. Credo che questa monarchia durerà ancora una generazione o due.
Ma non so se un suo successore sarà capace di compiere l’incredibile atto di terminarla. Forse sarebbe un sacrificio insensato per un erede al trono (il principe Carlo, ndr) che è uomo di esperienza e cultura».
Quindi la monarchia potrebbe durare ancora a lungo?
«La sua popolarità mi lascia interdetta. Non voglio pensare che le persone siano suddite di natura, o che preferiscano le disuguaglianze. Ma, personalmente, in una repubblica mi sento più a mio agio: respiro meglio. Spero di fare presto il percorso inverso della mia famiglia e diventare una cittadina irlandese. Io e mio marito avevamo già deciso di trasferirci. Poi il Covid ha rovinato i nostri piani. Amo il posto dove vivo ora, sul mare dell’Inghilterra occidentale. Ma sento il bisogno di fare le valigie il prima possibile. E diventare di nuovo europea».
Proprio non le piace l’Inghilterra di oggi?
«No. Per esempio, i miei nonni erano migranti.
Oggi, invece, è palese l’orrido volto della Gran Bretagna contemporanea. Lo vediamo nell’atteggiamento verso i rifugiati che rischiano la vita nella Manica. Mi vergogno di tutto questo. Mi vergogno di vivere in un Paese che ha eletto un governo con a capo Boris Johnson».
C’è chi dice che la vera opposizione al governo vedi le battaglie per i bambini poveri del calciatore Marcus Rashford – e una speranza del Paese sia la nazionale inglese di calcio. Che la scorsa estate agli Europei, grazie a classe e attivismo, ha riunito la nazione intera dopo tante divisioni, dalla Brexit al razzismo.
«A me piace il cricket. Ma credo che quella nazionale di calcio sia stata eroica. Mi ha infuso la speranza che gli istinti positivi e la buona volontà siano ancora vivi in questo Paese. I giocatori hanno mostrato che, con le loro parole e le loro azioni, la politica è qualcosa che ci riguarda tutti. Non possiamo starne fuori. Perché ognuno di noi può fare la differenza. Sempre».
Intanto, sono passati 18 anni dalla pubblicazione di “I fantasmi di una vita”, che ora esce in Italia. Che cosa prova a rileggere questa sua fantastica biografia?
«Sono soddisfatta di quanto scritto all’epoca. È un resoconto, parziale, della mia vita da bambina. Ma non dell’adolescenza. Le famiglie sono così misteriose. A volte ti chiedi: “Come ci è potuto succedere questo e quest’altro?”».
L’autobiografia esorcizza gli spiriti della sua esistenza. Il titolo originale è “Giving Up the Ghost”, in inglese “morire”. Perché?
« Giving Up the Ghost è un fallimento, condizione che condividiamo tutti. Il titolo sta per “morire”, ma nel mio libro significa anche imparare a vivere: e cioè liberarsi da rimorsi, ricordi e fantasmi ( ghost), che per molto tempo mi hanno indebolita.
Questo processo è iniziato dopo la morte del mio padre adottivo, Jack, nella primavera del 1995. Era andato in pensione poco prima e con mia madre si erano trasferiti nel Norfolk. Ma dopo la morte di Jack – infarto improvviso – mia madre lì non volle più restarci. Così decidemmo di andarcene, e chiudere quel capitolo delle nostre vite. I fantasmi di una vita inizia proprio con questa decisione.
Solo successivamente mi sono resa conto che stavo scrivendo un libro: un’occasione per parlare e farmi sentire. Ho avuto coraggio. L’endometriosi non è qualcosa che puoi spiegare in una sola frase: questa patologia e le relative cure mi hanno devastato la vita».
Dal libro, si intuisce come la sua infanzia sia stata una guerra, un assedio. Come ha trovato pace?
«È stata una battaglia. Ma non credo di aver mai trovato pace. La battaglia è contro ciò che ho sofferto ma forse anche la mia stessa natura. A sei anni, mia madre e mio padre lasciano la casa dei miei nonni e si trasferiscono in un’altra, per me maledetta. Subito dopo, il mio patrigno irrompe nelle nostre vite, mentre papà svanisce.
I fantasmi continuano a seguirmi. E così, in questa mia biografia, ho deciso di affrontarli».
Nel libro lei è anche molto critica del senso di colpa che instillano le religioni, quella cattolica in particolare.
«Ne parlo spesso con le mie vecchie amiche.
Nessuna di noi si considera più cattolica oggi, ma tutte siamo state forgiate da quegli insegnamenti: scrupolose, con uno spiccato senso del dovere, perfezioniste fino al masochismo. Far crescere i bambini senza lodi, e instillargli la paura costante di commettere un errore, non aiuta».
La sua vita è stata afflitta da malanni fisici, anche ignorati dai medici. Quanta ispirazione ha trovato nella sofferenza?
«Le sofferenze sono utili soltanto perché capisci meglio i dolori delle altre persone. E puoi aiutarle.
Per il resto, le sofferenze sono inutili. Anche se essere scrittrice significa sempre farsi un esame di autocoscienza, non puoi mai liberarti di te stesso».
Lei non è riuscita ad avere figli. Quanto sarebbe stato importante?
«Da giovane, non volevo avere bambini. Volevo soltanto far crescere me stessa, essere autosufficiente. In ogni caso, a 27 anni, i disastri fisici mi hanno tolto ogni possibilità di scelta. Ero ancora combattuta su un’eventuale maternità. Ma volevo essere io ad avere l’ultima parola».
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