Tre donne su quattro

di Ilaria Tuti

 

Uno schiaffo ricevuto in mezzo alla strada, perché lo hai lasciato, dopo che per un anno ti ha tradita. Un inseguimento in auto, di notte: un incontro chiarificatore a cui non hai saputo dire no e che è esploso in insulti e minacce. Il telefono che squilla senza pace, perché lui vuole sapere dove sei. Chiamerà più di trenta volte, nessuna pausa tra una e l’altra, prima che tu trovi il coraggio di spegnere il cellulare. E anche quando finalmente lo fai, non hai pace, perché continui a sentire la sua rabbia sulla pelle, nelle orecchie.

Tre episodi diversi di gioventù, raccontati a cena da tre amiche, amiche da una vita. Le donne attorno al tavolo sono quattro, una tace, una sono io. Più tardi, a casa, ci ripenso e mi rendo conto che quella emersa dai ricordi è una statistica inquietante, per quanto parziale. Tre donne su quattro hanno vissuto rapporti malsani, sono state sfiorate e a volte colpite da una violenza che si è sentita legittimata dal potere che l’altro percepiva di avere su loro. Donne che hanno incassato colpi psicologici e a volte fisici, ma alle quali è stato necessario tempo per liberarsi di compagni sbagliati e fragili, convinte, nemmeno troppo inconsciamente, che il fallimento fosse prima di tutto il proprio. Donne istruite, economicamente indipendenti, provenienti da famiglie equilibrate, eppure schiave di una dinamica psicologica e sentimentale difficile da sbrogliare.

Passano due anni. Dimentico. Scrivo Figlia della cenere e, a un certo punto, durante la stesura mi fermo. Sto affrontando il tema della dipendenza affettiva, degli sbilanci intimi e di coppia su cui la protagonista cammina in bilico, nella vita privata tanto quanto nell’ambiente lavorativo. A un certo punto mi chiedo se sia addirittura «troppo» quello che sto descrivendo, mi lascio sopraffare dai dubbi e dalla tentazione di appiattire la narrazione su una linea meno esplicita, più sicura perché largamente accettabile. Ma poi ricordo. Riaffiorano le quattro giovani donne, le tre che hanno raccontato, quella che è rimasta in silenzio, una che ero io. Che fatica, per ciascuna, sciogliere un legame, per quando sofferto. Quante lacrime e sforzo, per riuscire a dire: «Adesso, basta».

Sarò come tu mi vuoi. Forse non abbiamo mai pronunciato queste parole, ma le abbiamo incarnate. C’è stato un momento nella nostra vita in cui abbiamo adattato la forma — fisica, emotiva, psicologica, comportamentale — al contenitore rappresentato dalle aspettative dell’altro, un «altro» considerato speciale e investito in modo unilaterale e per pura fede di un potere salvifico e immenso: quello sulle nostre carenze di creature imperfette. I rapporti interpersonali sono specchi nei quali incontriamo il nostro riflesso. Dove c’è dipendenza affettiva, dall’altra spesso troviamo manipolazione psicologica, che in alcuni casi diventa abuso emotivo, e talvolta anche fisico.

Il manipolatore ha bisogno di esercitare il controllo sull’altro per sentirsi forte, deve far accettare le proprie idee per conservare la percezione di sé stesso come vincente. Ma non danza da solo su questo piano inclinato. La vittima, da parte sua, è prigioniera nella tela vischiosa dell’idealizzazione che ha riversato su di lui, trattenuta dal bisogno di conferme, perdendo a ogni critica impietosa qualche piuma dalle ali, convinta che il proprio valore dipenda unicamente dall’opinione che all’esterno si ha di lei. Può dibattersi fino a non avere più forze, prima di accorgersi del nero all’orizzonte, verso il futuro. È una danza fatta di spinte verso l’alto e cadute rovinose, alla quale partecipano attivamente entrambi; a volte, senza essere consapevoli dei ruoli, senza intenzionalità, perché si può essere sottomessi a un «bravo ragazzo», a un «seduttore affascinante», non solo a chi intimidisce con parole o gesti. A volte, è la luce del sole a bruciare le ali.

Non è una questione di genere, né di relazione. Il manipolatore può essere una donna, un amico, un genitore, un figlio. La subordinazione emotiva può infettare persino un rapporto di lavoro. Diversi anni fa, quando la mia famiglia fu investita e scomposta da un grave lutto che ne scardinò il baricentro, un’amica mi fece un dono in apparenza insolito. Mi regalò Come mi vuoi?, di Robin Stern (Corbaccio), un libro su come imparare a riconoscere e a difendersi dalla manipolazione psicologica. A lei, diversamente che a me, era ben chiaro che certe dipendenze passano attraverso gli stati di necessità, di confusione e dolore, e tendono a muovere le corde dei bisogni più profondi. Le era ben chiaro che una famiglia vinta dalla perdita può chiudersi su di te e non lasciarti libertà di scelta. Libertà che non può prescindere dall’educazione sentimentale, che è prima di tutto rispetto per sé stessi e riconoscimento del proprio valore.

La mia generazione ne è ancora carente, come le precedenti. Non mi era mai stato insegnato a saper stare da sola ma, al contrario, a immaginarmi inserita in un preciso contesto familiare e lavorativo. Ero spaventata dalla solitudine, dai vuoti fisici attorno a me, dai silenzi che ora invece cerco per sentir battere il cuore e capire che cosa lo appassiona di più. Ho dovuto lavorare a lungo su me stessa. È un processo complesso, forse nemmeno del tutto possibile, rimuovere dall’inconscio certi innesti pericolosi, per dare una sterzata ai pensieri e renderli costruttivi, soffiare con tutto il fiato che si ha in gola per riaccendere le braci delle proprie aspirazioni, per scegliere e non semplicemente attendere di essere scelti, e allo stesso tempo trovare anche il coraggio per accogliere i naturali momenti di buio.

I sensi di colpa per le altrui aspettative disattese, un senso sbagliato della vergogna, l’onta del fallimento sono sempre in agguato, ma diventano meno spaventosi quando riusciamo a dire, semplicemente (perché è umano, perché è necessario): «Questa persona non fa il mio bene». Siamo noi i custodi del nostro benessere, chiamati a recuperare un’autostima sana, a porre dei limiti all’influenza che le figure importanti della nostra vita possono esercitare, allontanandoci dal nostro centro, come correnti avverse.

La contrattazione fa parte dei rapporti umani, ma esiste una terra che non può essere ceduta, ed è quella in cui coltiviamo la nostra felicità. Non c’è nulla e nessuno da cui dobbiamo essere salvati, né salvare, tranne dal nostro giudizio, quando è una condanna: è la vita, non una guerra alle proprie fragilità.

È un’esperienza da attraversare, apprendendo con meraviglia e compassione, più velocemente a ogni prova, ispessendo la pelle al bisogno, pensando con rapidità, diventando più saggi e forse anche un po’ fatalisti, tagliando fili inutili per cucirli in nuove soluzioni disegnate, questa volta, addosso al nostro essere. Ma tutto questo impegno non porta a nulla, se alla fine di ogni giornata non ci sentiamo assolutamente certi di essere rimasti fedeli a noi stessi, prima che agli altri».

 

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