Edoardo Semmola
Il filosofo Sergio Givone ci crede alla voglia di cambiamento di Firenze. Un cambiamento che sia non di facciata ma di paradigma, per affrontare il futuro di un (sperabile) post-turismo di massa. «Poco poco, per ora, ma ci voglio credere». La storica dell’arte Cristina Acidini predica prudenza perché «non è questo il momento di frenare o rallentare quella che speriamo sia una ripresa». Il sociologo e urbanista Giandomenico Amendola è più pessimista che chiama in causa il filosofo Georg Simmel quando un secolo fa diceva che «nessuno a Firenze riesce a immaginare un domani diverso da ieri». Mentre Stefano Passigli, docente, editore, anima degli Amici della Musica, suona la carica: «Appena passa la fase critica, ci vuole un modello nuovo».
Il dibattito è aperto. Ci affacciamo in una qualsiasi strada del centro e vediamo il più grande proliferare di tavolini e dehors che la memoria ricordi. Ma che tipo di segnale è? Di attesa per un ritorno alla vita precedente? Un altro terreno di scontro tra la città dei turisti e quella che fu dei fiorentini? Al di là degli annunci, Firenze ha colto l’occasione — lunga un anno e mezzo — per ripensare se stessa e rivedere il proprio Dna?
La presidente dell’Accademia delle Arti del Disegno Cristina Acidini sta uscendo ora dal suo incubo Covid. Firenze ancora no. «L’uso della città è un tema di grande attualità — dice — per ripensare il consumo edilizio e sociale del centro». Ma il Covid e la crisi che lo ha seguito «ha imposto di sospendere questo tipo di riflessioni». Infatti, pensa, «molti ora vivono forte esigenza e volontà di tornare al pre-virtus. Ci vuole pazienza. Per riaprire un discorso sull’uso della città in termini nuovi e con sguardo critico quando ci saranno le condizioni per farlo». Non sa se si sia approfittato della stagione sfavorevole «per rielaborare un modello di accoglienza più sostenibile. Ma in questo momento bisogna sospendere il giudizio».
Il dubbio se lo pone anche Amendola: «È presto per sapere se si è immaginato e progettato una Firenze diversa. Penso che sarà inevitabile, anche se difficile, perché la storia pesa sulle città e Firenze è diventata un parco a tema rinascimentale perché si è mossa come un qualsiasi prodotto: ha disegnato se stessa modellandosi sul volere del consumatore, in questo caso il turista». Amendola scorge però anche l’altro lato della medaglia: «Vedere di nuovo le strade che si “animano” con i tavolini, è già un passo. Perché li vediamo pieni di fiorentini e non di turisti. Non va dimenticato che dall’Ottocento in poi i tavolini dei bar sono diventati uno dei principali centri di socializzazione delle più importanti città europee».
Possiamo considerarla una toppa. O un palliativo. Un cerotto sulla ferita che ancora butta sangue. L’importante — sottolinea Stefano Passigli — è che questo proliferare di tavolini sia una risposta provvisoria «di necessità a una situazione di transizione». «Per permettere a imprese in grande difficoltà di sopravvivere. Ma se diventasse una politica stabile, sarebbe disastroso». Lui alcune ricette in mente le avrebbe per il dopo: «Dobbiamo ripensare un’imposta di soggiorno differenziata, per disincentivare la permanenza breve e incentivare quella lunga, rilanciando le attrattive culturali della città».
Sergio Givone ha sempre uno sguardo paterno sulla città che lo ha accolto, lui piemontese di nascita: «Non sopravvaluterei né in negativo né in positivo la frenesia che ci ha preso dopo un anno e mezzo di clausura. Chi non ha voglia di tornare alla vita di prima?». In altri momenti, se gli avessimo chiesto se la pandemia ci aveva insegnato qualcosa «avrei risposto di no, che come sempre, passato il disastro, tendiamo a dimenticarlo subito». Ma non questa volta. «Forse qualcosa è successo davvero nel profondo delle coscienze. Perché è vero che stiamo vincendo una battaglia, grazie ai vaccini, ma la guerra è destinata a durare. La soglia di attenzione dovrà mantenersi alta. Le risposte che la città sta dando per ora sono il frutto di una voglia di ricominciare giusta ma superficiale». Givone pensa che questa volta potrebbe essere diverso perché quando è andato alla riapertura della Pergola «ho sentito come la riscoperta non solo del teatro ma del senso del teatro, qualcosa di quasi “religioso”. Non è mera voglia di tornare ad assembrarci. Credo e spero sia qualcosa di più».