Elio Germano “È ora di uscire dal Truman show”

Intervista al protagonista di “Favolacce”, premiato a Berlino
di Arianna Finos Come i registi Fabio e Damiano D’Innocenzo, Elio Germano ha un sentimento duplice rispetto all’arrivo sulle piattaforme (11 maggio) di Favolacce, premiato per la sceneggiatura alla scorsa Berlinale: «Un film nato per la sala e che avremmo voluto vedere lì, d’altra parte c’è la possibilità di incontrare un pubblico vasto». Valerio Mastandrea, di solito parco di esposizioni mediatiche, ha twittato l’endorsement: «Provate a spegnere il cellulare, a pisciare prima o dopo.
Ricreate dove si può l’esperienza di sala perché Favolacce è puro cinema». Il film è una favola nera sui rapporti tra genitori e figli di un paesino laziale. Germano è il padre di una famiglia con piscina gonfiabile e buoni voti a scuola.
“Favolacce” apre la porta su un mondo di famiglie normali e ce le fa guardare con altri occhi.
«Viviamo in un sistema competitivo, un fondale di carta a cui ci aggrappiamo per inventarci la felicità in un sistema che non è fatto per renderci felici. La famiglia del film va a sbattere a un certo punto contro un cielo finto e capisce di aver costruito un mondo da Truman Show. Con il coronavirus sta succedendo lo stesso. La gente va in crisi, come quando c’è un lutto, una malattia. La crisi può essere un momento di crescita: capire l’essere umano scavalcando le finzioni, il finto ottimismo che muove l’economia».
Com’è stata la clausura vissuta dai più fragili, raccontati nel film?
«Sei persone pigiate in 40 metri ci sono sempre, se non si ammalano di coronavirus si ammalano di altro.
Non vogliamo vedere persone per strada e c’è gente che la casa non ce l’ha, c’è chi vive alla giornata, in nero.
Il virus ci mostra cose che non vogliamo vedere, che mettono in crisi la nostra visione patinata. È come una situazione di stress che fa scoppiare le menzogne. Ai personaggi del film succede questo: vivono in un mondo in cui credono solo loro, ma non hanno dialogo con i figli, non aiutano chi è in difficoltà. E allora i figli sfuggono di mano, le credenze su cui hanno costruito la vita vengono violentemente spazzate via. Non hanno strumenti culturali, c’è degrado culturale perché c’è stata una sostituzione di valori. Anni fa imparare e mettersi a servizio erano valori, oggi anneghiamo pensando mors tua vita mea, ai figli insegniamo che non fidarsi è meglio».
Lei quando ha sbattuto contro il cielo del suo Truman Show?
«In continuazione. Da bimbi ci chiedono cosa vogliamo fare da grandi, tutto è appiattito in verticale, ma la vita è circolare. Così ciò che abbiamo oggi non ci basta. Io grazie a esperienze drammatiche e dolorose della mia vita, in campo sentimentale e professionale, mi sono orientato verso altro. Capita di venire deriso, di guadagnare meno, ti aggrappi a un altro tipo di ritorno, più interiore, con meno oggetti nella tua vita o invidie.
È una giostra continua».
Com’è stato l’incontro con i D’Innocenzo?
«Sono venuti al teatro Argot, mi hanno parlato di novantasei cose. Mi hanno fatto leggere altre 4/5 sceneggiature. Quella di Favolacce era bellissima. Vediamo il cinema allo stesso modo, sul set siamo non attori ma esseri umani. Fabio e Damiano si permettono sfacciatamente di non dover dimostrare nulla a nessuno. Ed è raro. Nei primi film mi sono immerso in un mondo in cui dovevi dimostrare: quanto sai i dialetti, quanto sai cambiare ruoli. E non ha aiutato né i film né me. I D’Innocenzo non vogliono fare carriera, vanno dritti verso quello che sentono».
Rispetto al futuro è pessimista o ottimista?
«Identificarsi in queste categorie significa farsi un’immagine del futuro. Io voglio restare ancorato alla difficile battaglia del quotidiano.
Questo dolore ci ha insegnato qualcosa? A livello collettivo mi pare di no. Si fanno interessi solo dei grandi poli economici, dimenticando gli esseri umani. Penso alla Ginestra di Leopardi che alludeva a una “social catena” che ci permette di lottare uniti contro la natura intesa come malattia e morte. La social catena sono gli ospedali pubblici, non le strutture private».
Lei è uno dei pochissimi attori a non essere sui social.
«Sui social c’è gente che parla per me e non posso bloccarla. Mi sono rivolto alle forze dell’ordine che mi consigliano di iscrivermi, aprire una pagina ufficiale e screditare gli altri.
Approfitto per dire a tutti che non sono io quello dei social, prendete a male parole chi risponde a nome mio, chi usa la mia faccia per consigliare film o dischi, magari a pagamento».
La vedremo ancora in una commedia? Cosa la fa ridere?
«Non esiste divisione di genere.
Qualche lampo di comicità c’è anche in Favolacce. Come diceva Pirandello, è una questione di inquadrature, ci sono cose che da lontano fanno ridere, da vicino sono drammi. Una vecchina che scivola ti fa ridere, se è tua nonna no. Mi fa ridere la comicità assurda, il nonsense. Nino Frassica, Totò, Maccio Capatonda, che si eleva in una dimensione non razionale».
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