Papa Francesco ha smentito i vescovi italiani. Chiese chiuse ieri, chiese aperte oggi. Altre parole, semmai più morbide, non servono. E Francesco li ha smentiti non in un giorno qualsiasi, in un momento qualsiasi. Era in Santa Marta, la cappella vaticana in cui dice messa ogni alba. Era il settimo anniversario del pontificato di un gesuita venuto dalla “fine del mondo”. “I vescovi devono valutare bene che cosa fare in questa crisi legata al coronavirus – ha detto – perché le misure drastiche non sempre sono buone. Preghiamo perché lo Spirito santo dia ai pastori la capacità del discernimento pastorale affinché provvedano ad adottare misure senza lasciare da solo il santo popolo”. E il cardinale Angelo De Donatis, il vescovo di Roma, vicario di Francesco, ieri mattina ha firmato un decreto per correggere il decreto di giovedì pomeriggio: da chiese chiuse per rispettare le disposizioni governative a chiese (parrocchiali) aperte con i sacerdoti precettati per gestire gli ingressi. De Donatis aveva ordinato di sbarrare i sagrati romani non per sua premura, ma per recepire le indicazioni della Conferenza episcopale italiana, espresse in un documento inviato ai 260 vescovi delle 260 diocesi, ciascuno autonomo nel territorio di competenza.

La Cei aveva riempito una pagina per raccomandare prudenza e senso civico, decine di vescovi da nord a sud hanno diffuso innumerevoli testi per garantire la vicinanza ai sacramenti anche se “fisicamente dispersi”. Per alcune ore la Chiesa ha introdotto l’eucarestia a distanza come il lavoro a distanza, ma un paio di frasi di Bergoglio hanno ribaltato le decisioni e collocato i vescovi in una scomoda posizione: divulgare la linea del capo dei cattolici oppure accettare le leggi di uno Stato che affronta una pandemia? Giovedì la Cei ha ammesso la prevalenza della scienza – la prevenzione sanitaria – sulla devozione, venerdì ci ha ripensato. Siccome il governo impone la permanenza in casa tranne che per comprovate esigenze lavorative o per l’acquisto di farmaci e alimenti, il fedele che esce per recarsi in chiesa rischia una sanzione, oppure vale la deroga dei vescovi? Pesa più un decreto italiano o un decreto diocesano? I vescovi ne sono consapevoli, non intendono spingere i parrocchiani a infrangere le regole, perciò hanno lasciato ai sacerdoti spiragli strettissimi per autorizzare l’accesso in chiesa e per rimuovere il simbolo della serrata che ha infastidito il Papa. Il cardinale De Donatis ha scritto una lettera per spiegare i due decreti, un arzigogolo burocratico che ha poco di spirituale. Il vescovo di Roma ha rivelato di aver consultato il pontefice prima di deliberare e ha annunciato le chiese semichiuse o semiaperte: “Cari sacerdoti, ci affidiamo al vostro saggio discernimento. Aiutate tutti a percepire che la Chiesa non chiude le porte. Portate pure, con tutte le precauzioni necessarie, il conforto dei sacramenti agli ammalati”.

Non è il 1918, però viene in mente Antonio Alvaro y Ballano, il vescovo di Zamora, cittadina spagnola nella regione di Castiglia e Leon. Un secolo e due anni fa, le autorità di Madrid vietarono gli assembramenti per frenare la diffusione della letale influenza chiamata impropriamente Spagnola. In realtà, il contagio partì dalle trincee di guerra. Il vescovo celebrò una messa nella chiesa di San Esteban per contestare una misura considerata anticlericale e per mondare i fedeli dai peccati che avevano scatenato la malattia. Zamora divenne un focolaio.