Zeri, il lato milanese

Non è anomalo assistere a studi di ricognizione «regionale» relativi ai grandi conoscitori del passato. Basti pensare al Taccuino veneto di Luigi Lanzi o al libro Cavalcaselle in Piemonte. Dunque, non deve sorprendere che una mostra sia intitolata Federico Zeri a Milano, dedicata al conoscitore romano (1921-’98) e ai suoi rapporti con il capoluogo lombardo (aperta fino al 7 marzo 2022, presso il Museo Poldi Pezzoli). Inizio col descrivere quello che si vede, prima di soffermarmi su ciò che si legge in catalogo.
Ho visitato l’esposizione al contrario, per errore mio, lo ammetto: mi sono infilato, d’istinto, nella saletta più accogliente, quasi una mostra nella mostra. Basterebbe una parete per giustificare il viaggio a Milano ma qui sono addirittura quattro: due dedicate a Donato de’ Bardi e due a Johannes Hispanus. L’occhio è naturalmente attratto dai fondi oro del pittore pavese, con la parziale ricomposizione di un suo straordinario polittico. Una tavola proveniente dalla Pinacoteca di Brera e tre di collezione privata. Il San Gerolamo, in particolare, mi ha fatto venire in mente che era stato venduto dal Brooklyn Museum di New York circa un annetto fa, acquistato da un fortunato collezionista. Prima domanda: perché il museo di Brooklyn se ne è disfatto? Non vorrei fare la parte di Cassandra ma è evidente che dai tempi in cui Zeri si appassionava a questi argomenti molta acqua è passata sotto i ponti. Eravamo nel 1973 quando scrisse il memorabile saggio Rintracciando Donato de’ Bardi. Chi sostiene più, oggi, la preminenza della pittura lombarda del Quattrocento? E che posizione occupa sullo scacchiere delle scuole regionali italiane? Stando al Brooklyn Museum, evidentemente, sta piuttosto in basso, tanto da potersi disfare, senza alcun rimorso, di una sua testimonianza cruciale.
L’esercizio sull’Hispanus è di quelli che lasciano a bocca aperta. Tutto è nato dall’idea di poter seguire le tracce e gli spostamenti di un pittore spagnolo in giro per l’Italia all’inizio del Cinquecento, quasi solo a partire dai suoi mutamenti di stile. Un esperimento difficilissimo che Zeri ha superato con straordinaria disinvoltura. In mostra l’occhio rimane stregato dalla stupefacente Deposizione della collezione Saibene, una tavola di ampie dimensioni firmata a grandi lettere «Ispanus». Ci si perde nell’osservare la ricchissima vegetazione del fondo e a seguire i viottoli che portano agli edifici turriti collocati alle sommità degli speroni di roccia.
Lasciata questa stanza – che in realtà è l’ultima del percorso – ci si imbatte nelle due opere che Zeri aveva legato, alla sua morte, al Museo Poldi Pezzoli: una tavoletta di area raffaellesca e un’intensa Pietà di Giovanni de’ Vecchi. Nel testamento Zeri aveva inserito i semi della propria rinascita, sul piano della memoria, che oggi vediamo fruttificare, complice l’instancabile attività promossa dalla Fondazione bolognese che porta il suo nome.
A questo punto si aprono due vie al percorso, andando sempre a ritroso: verso un angolo dedicato alla natura morta, oppure intorno a due opere estravaganti: una magnifica tela di Antonio Gherardi e un quadro bislungo di Alessandro Magnasco (personalmente continuo a credere che sia di Sebastiano Ricci). Questo per dire che Zeri spaziava oltre i secoli a lui più familiari (dal Trecento al Cinquecento), sconfinando volentieri anche in quelli successivi. Il genere della natura morta sta proprio lì a dimostrarlo. Un argomento sul quale avrebbe diretto vaste campagne di studi, sfociate nel repertorio sulla natura morta in Italia. Forse il quadro che spicca sugli altri è quello del Maestro della natura morta di Hartford dipinto assieme a Carlo Saraceni, autore delle due figure femminili. Poi c’è un angolo dedicato al ritratto, con una tavola double face di Ercole de’ Roberti e una rara tela di Giovan Battista Moroni. In entrambi i casi Zeri ha avuto una funzione propositiva, nel ripristinare la corretta attribuzione al maestro ferrarese oppure nell’avanzarla per la prima volta. Uno spazio adeguato, infine, è stato riservato alla pittura di età gotica (Zanino di Pietro, Maestro del Giudizio di Paride al Bargello), in particolare tramite un trittico ad ante mobili di dimensioni ragguardevoli (quasi 170 cm di altezza) del folignate Giovanni di Corraduccio.
Ogni opera (o gruppo di opere del medesimo autore) è studiata da specialisti in ampie schede che ripercorrono il ruolo giocato da Zeri nelle specifiche dinamiche attributive. Il catalogo è a cura di Andrea Bacchi (direttore della Fondazione Zeri) e di Andrea Di Lorenzo. Entrambi firmano il saggio introduttivo: Un romano a Milano. Seguono i contributi di Alessandra Mottola Molfino (storica direttrice del Museo Poldi Pezzoli), di Mauro Natale e di Renzo Zorzi (in quest’ultimo caso si tratta di un articolo uscito nel 1985 sulle pagine del «Domenicale» del Sole 24 Ore).
Il compito di spiegare il senso della mostra è stato assunto dai curatori che hanno ripercorso in modo analitico le frequentazioni milanesi di Zeri. Sono storie di relazioni con istituzioni museali (in primis il medesimo Poldi Pezzoli ma anche la Pinacoteca di Brera, di cui Zeri curerà la serie dei cataloghi scientifici), case editrici, mercanti d’arte e collezionisti. Tra questi ultimi primeggia Alberto Saibene, con cui Zeri inizierà un intenso carteggio a partire dal 1948 (messo in luce pochi anni fa da Giovanni Agosti), possessore di una notevole raccolta di quadri, illustrata dal medesimo studioso nel volume Trenta dipinti antichi della collezione Saibene (1955). Nel 1956 Zeri aveva cercato di ottenere – peraltro senza successo – una cattedra all’Università Statale di Milano. Difficile immaginare come sarebbero andate le cose se fosse giunto a ricoprire l’incarico, assegnato l’anno successivo a Anna Maria Brizio, studiosa onesta e meritevole ma certo non all’altezza del concorrente.
Nel 1985 tenne una serie di «conversazioni» all’Università Cattolica, poi raccolte nel fortunatissimo Dietro l’immagine. Quattro anni dopo il Poldi Pezzoli allestì la mostra sulle sculture della collezione Zeri: Il conoscitore d’arte. La seconda tappa dell’esposizione venne ospitata all’Accademia Carrara di Bergamo, a cui infine donò la sua raccolta di sculture. Se a Milano Zeri si sentiva in una città in grado di esaltare il suo talento, Bergamo lo ricongiungeva idealmente a Giovanni Morelli, capostipite della famiglia dei conoscitori di cui si sentiva un discendente naturale.

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