Pirandello e «questa mia servetta Fantasia»

«L’estetica dell’Ottocento» ha scritto Benedetto Croce, «foggiò la distinzione che si ritrova in non pochi dei suoi filosofi, tra fantasia (che sarebbe la peculiare facoltà artistica) e l’immaginazione che sarebbe facoltà extra artistica». A fronte del carattere ‘creativo’ della fantasia, precisa Croce, «l’immaginazione è parassita e adatta a combinazioni estrinseche e non a generare l’organismo e la vita».

L’organismo che è l’opera d’arte, viva nella sua irripetibile compiutezza. La fantasia è indicata come la facoltà creatrice per eminenza, è riguardata come la dote intrinsecamente poetica ovvero capace di conferire forma. La fantasia concepisce secondo un intendimento a comporre, si muove a dare consistenza formale allo spontaneo susseguirsi in noi di stimoli, di impressioni, di sensazioni. Si avvale e richiede il ricorso ai mezzi propri dell’arte.

La fantasia plasma le percezioni che riceviamo, le emozioni che patiamo e le restituisce in motivi, le delinea in figurazioni, le compone in forme coerenti. Crea, appunto. E creare è dare vita.

Tenere presenti queste acquisizioni dell’estetica romantica relative alla distinzione tra fantasia e immaginazione può risultare di una qualche utilità per chi intenda seguire Luigi Pirandello nelle pagine della Prefazione apposta a Sei personaggi in cerca d’autore. Esse si aprono con quell’esordio famoso: «È da tanti anni a servizio della mia arte (ma come fosse da jeri) una servetta sveltissima e non per tanto nuova sempre del mestiere. Si chiama Fantasia».

E la servetta, come è nei suoi compiti, si muove in casa di Pirandello da una stanza all’altra, giorno dopo giorno. E in certe ore, poi, della giornata, specialmente si dà molto daffare e il suo lavoro si fa allora più intenso ed efficace. La notte, in camera da letto, tra la veglia e il sonno. Nei tardi pomeriggi, quando cala lentamente la luce e una penombra si diffonde, ma piano piano, illudendo una leggerezza nuova degli arredi e conferendo all’intonaco delle pareti la magica virtù d’una materia attraversabile.

Racconta Pirandello: «Orbene, questa mia servetta Fantasia ebbe, parecchi anni or sono, la cattiva ispirazione o il malaugurato capriccio di condurmi in casa tutta una famiglia, non saprei dir dove né come ripescata, ma da cui, a suo credere, avrei potuto cavare il soggetto per un magnifico romanzo».

Già, perché la fantasia, abbiam visto, cospira a render viva in una sua propria identità, questa e non un’altra, costruita nei puntuali modi dell’arte, una presenza effimera che appare nel mobile e transeunte regno dell’immaginazione. Accrescerla allora, quella presenza, incrementarla e renderla peculiare e riconoscibile nei suoi tratti, così come ravvisi i connotati di un volto, così come cogli un’attitudine che si esprime in un gesto.

Dunque è questione di far crescere entro di sé quell’apparenza che si è profilata allo stato nascente, coltivarla, allevarla ossia farsene autore. «Quale autore potrà mai dire come e perché un personaggio gli sia nato nella fantasia? Il mistero della creazione artistica è il mistero stesso della nascita naturale», considera Pirandello. E riflette: «Così un artista, vivendo, accoglie in sé tanti germi della vita, e non può mai dire come e perché, a un certo momento, uno di questi germi vitali gli si inserisca nella fantasia per divenire anch’esso una creatura viva in un piano di vita superiore alla volubile esistenza quotidiana».

Si sa come l’opera di Pirandello sia animata, con crescente intensità d’espressione e nettezza filosofica, da una affilata indagine sul plesso arte-vita. Essa prende evidenza come creazione di un carattere, e le presenze, i fantasmi che accedono alla sua casa, acquistano consistenza di personaggi perché trovano il loro costrutto nelle domande e nei dubbi di Pirandello medesimo, ne «i travagli del mio spirito», come egli dice: «l’inganno della comprensione reciproca fondato irrimediabilmente sulla vuota astrazione delle parole; la molteplice personalità d’ognuno secondo tutte le possibilità d’essere che si trovano in ciascuno di noi; e infine il tragico conflitto immanente tra la vita che di continuo si muove e cambia e la forma che la fissa, immutabile».

 

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