di Marco Travaglio
Nel gennaio del 1993 Bettino Craxi è ormai sepolto sotto una raffica di avvisi di garanzia e prepara le dimissioni da segretario del Psi. Amato, da Palazzo Chigi, lo difende: “Craxi inquisito? Ogni volta che una persona che ha avuto una sua grandezza è in difficoltà, c’è una tendenza a scaricargli tutte le responsabilità addosso: ma questo non si fa, né con i vivi né con i morti” (16-1-93). Il 9 febbraio l’architetto socialista Silvano Larini, collettore delle tangenti milanesi al Psi, rientra dalla latitanza e inizia a collaborare con il pool Mani Pulite e svela i contorni del Conto Protezione: il deposito svizzero a lui intestato su cui negli anni 80 il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, complice Licio Gelli, girò una stecca di 8 miliardi di lire a Craxi su indicazione di Martelli, ora ministro della Giustizia. Ma Di Pietro&C. stanno arrivando al cuore di Tangentopoli con le indagini su Enimont-Montedison (l’affare che vede implicato l’intero vertice del pentapartito e che Amato a suo tempo seguì molto da vicino), sul Gotha della finanza italiana (Fiat, Fininvest, Ligresti) e delle Partecipazioni statali (Eni, Iri, Enel), ma anche sulle tangenti rosse (il 1° marzo verrà arrestato Primo Greganti, il “compagno G” della finanza occulta del Pci-Pds). Sta per saltare il sistema marcio e consociativo che ha retto l’Italia negli ultimi vent’anni. Ecco Amato pronto al salvamento. “Bettino, abbi fede”. Il 9 febbraio, mentre Larini canta in Procura, su carta intestata “Il Presidente del Consiglio dei ministri”, con tanto di stemma della Repubblica Italiana, il premier Amato scrive di suo pugno una lettera non protocollata all’amico Bettino – indagato per corruzione, concussione e finanziamento illecito e furibondo con lui perché il suo governo non fa nulla contro i magistrati – per suggerirgli la linea difensiva e rassicurarlo sul colpo di spugna che sta preparando. “Caro Segretario, prendo a calci i primi mattoni di un muro di silenzio che non vorrei calasse fra noi. E vorrei chiederti invece di avere fiducia in quel che io sto cercando di fare. Occorre certo che passi qualche giorno, che la situazione delle imprese, e non solo della politica, appaia (come del resto già è) insostenibile. È inoltre realisticamente utile che la macchia d’olio si allarghi. Neppure a quel punto credo che sarà possibile estinguere reati di codice. Ma credo che l’estensione per essi dei patteggiamenti e delle sospensioni condizionali sia una strada percorribile. Sto conquistando su questo preziosi consensi. E ritengo che si ottengano così procedure non massacranti, che evitano la pubblicità devastante dei dibattimenti e forniscono possibilità di uscita. Se posso darti un consiglio personale, ricomponi le tue linee difensive: tu hai detto che sapevi – come tutti – che c’erano dei finanziamenti irregolari. Ora neghi di aver avuto conoscenza delle singole cose che ti vengono addebitate. Ciò significa che neppure tu sapevi quanto fosse ramificata, estesa e legata a fatti specifici di corruzione o concussione la provvista dei fondi irregolari. Questo ho tentato di suggerire quando ho toccato il tema alla Camera. Per il partito sto facendo così come mi hai chiesto di fare: non interferisco nella scelta (del successore alla segreteria, ndr). Ma mi sta a cuore il massimo di unità. Per questo un’invenzione, caso mai accanto a Benvenuto, sarebbe utile. Lo scontro in Assemblea è comunque pericoloso. Anche se Claudio mi pare ormai in pericolo. Apprendo che, se ci fosse un riscontro a ciò che ha detto Larini, già sarebbe partito un avviso per concorso in bancarotta fraudolenta (del Banco Ambrosiano, ndr). Io sono qua. E continuo ad esserti grato ed amico. Giuliano”. Il Dottor Spugna. Detto, fatto. Mentre in privato il premier assicura gratitudine e amicizia al plurinquisito e dichiara in Senato che “la questione morale è diventata di prepotenza prioritaria”, Amato lavora alla “soluzione politica di Tangentopoli”.
E’ lui a ispirare il decreto del 5 marzo che depenalizza il reato di finanziamento illecito ai partiti, firmato dal nuovo ministro della Giustizia Giovanni Conso, subentrato a Martelli dopo le sue dimissioni dell’11 febbraio per l’indagine sul Conto Protezione. Un mega-colpo di spugna sulle indagini su Tangentopoli, senz’alcuna sanzione neppure politica o amministrativa per i colpevoli. Scalfaro e i presidenti delle Camere, Napolitano e Spadolini, sconsigliano. Conso tentenna. Ma il premier tira dritto. “Amato garantì l’‘assenso preventivo del Colle’”, ricorderà Ripa di Meana, che in totale dissenso si dimette da ministro dell’Ambiente e poi dal Psi. Ma non è vero, anzi Scalfaro ha posto precisi paletti alla “soluzione politica”: “Mi raccomando, dovete scrivere che chi confessa e patteggia per finanziamento illecito deve rinunciare per sempre alla vita pubblica”. Invece nel decreto c’è scritto soltanto che l’illecito finanziamento non è più reato, ma una semplice infrazione amministrativa, punibile con una semplice multa, senza alcuna interdizione dai pubblici uffici. Non solo: c’è pure il bavaglio alla stampa col ripristino del segreto istruttorio, che il nuovo Codice penale del 1989 aveva abolito per venire incontro alle esigenze dell’informazione e della trasparenza: nessuno potrà più sapere nulla delle indagini fino al processo. La bugia sottile. “Non è un colpo di spugna, abbiamo fatto esattamente quel che ci han chiesto i giudici di Milano, Di Pietro e Colombo”, dichiara Amato. Ma anche questa è una balla. Per il procuratore Francesco Saverio Borrelli la misura è colma. Il 7 marzo, di domenica, convoca la stampa e legge il comunicato che lo sbugiarda: “Come magistrati abbiamo il dovere inderogabile di applicare le leggi dello Stato quali che esse siano… Non consentiamo però a nessuno di presentare come da noi richieste, volute o approvate, le iniziative in questione… Ciascuno si assuma davanti al popolo italiano le responsabilità politiche delle proprie scelte, senza farsi scudo del nostro operato o delle nostre opinioni. Che sono esattamente opposte al senso dei provvedimenti adottati. Il prevedibile risultato delle modifiche legislative approvate sarà la totale paralisi delle indagini e la impossibilità di accertare fatti e responsabilità di coloro che li hanno commessi. Senza contare che così si disincentiva qualunque forma di collaborazione”. Migliaia di cittadini indignati inondano di fax le redazioni dei giornali e scendono in piazza in molte città per protestare. Lega, Rete e Msi sparano a palle incatenate contro il “governo degli inquisiti”. Il Pds, inizialmente tiepido, non vuol farsi scavalcare. Scalfaro convoca Amato nella sua residenza privata, presenti anche Spadolini e Napolitano. Questo decreto – gli dicono tutti e tre – non s’ha da fare. In ogni caso, il presidente non lo firma, anche perché interferisce con una materia – il finanziamento ai partiti – che il 18 aprile sarà oggetto di un referendum popolare (che l’abolirà a furor di popolo), dunque è di dubbia costituzionalità. Il vaffa di Max. Ridotto a pugile suonato dal gran rifiuto di Scalfaro, Amato schiuma di rabbia contro il Pds, accusandolo di aver avallato (all’indomani dell’arresto del Compagno G) e poi impallinato il decreto: “Quella del Pds è pura doppiezza. In privato m’invitano a rimanere, in pubblico ad andarmene, e con parole di violenza inaudita, intollerabile. E anche D’Alema era d’accordo sul decreto Conso” (10-3-1993). D’Alema, vicesegretario Pds, replica al fulmicotone, definendo il suo governo “pericoloso” e il premier un cacciaballe: “Lo dico e lo ripeto: Amato è un bugiardo e un poveraccio. È uno che deve far di tutto per restare lì dov’è, sulla poltrona. Ma che devo fare? Devo dire vaffanculo…” (La Stampa, 11-3-1993). “Mi ritiro”, anzi no. Il 16 marzo se ne discute alla Camera. Amato parla in un clima da bolgia infernale, fra i leghisti che urlano “ladri, ladri!” e i missini che roteano guanti bianchi e spugnette variopinte. Il leghista Luca Leoni Orsenigo sventola un cordone annodato a mo’ di cappio. Il missino Carlo Tassi, in camicia nera, fa ciondolare un paio di manette. Napolitano, paonazzo in volto, perde più volte la pazienza ed espelle questo e quello. Un mese dopo, all’indomani dei referendum sui soldi ai partiti e sulla legge elettorale maggioritaria, Amato si dimette da premier e dalla vita politica. “Per cambiare – annuncia all’aula di Montecitorio – dobbiamo trovare nuovi politici. Per questo, confermo che ho deciso di lasciare la politica, dopo questa esperienza da primo ministro. Solo i mandarini vogliono restare sempre e io sono in Parlamento ormai da dieci anni”. Del resto, un mese prima, era stato ancor più esplicito: “Intendo dare per primo l’esempio: quando fra un giorno, fra un mese o più in là chiuderò questa esperienza di governo, mi ritirerò dalla politica. Non farò come certi che vorrebbero essere protagonisti del vecchio, del nuovo e del nuovissimo” (10-2-1993). “Con tutto il rispetto per la persona di Amato – si domanda Veltroni sull’Unità – è immaginabile un nuovo governo dell’ex vicesegretario del Psi?”. Ma sì che è immaginabile. Arriverà nel 2000, con l’appoggio di Veltroni e D’Alema. Intanto al suo posto s’insedia il governo tecnico di Carlo Azeglio Ciampi, che fin dal primo giorno subisce i rimbalzi di Tangentopoli. Il 29 aprile la Camera nega alcune autorizzazioni a procedere contro Craxi: Amato non c’è (forse è di nuovo in bagno?) e tiene a farlo sapere: “Per me sarebbe stato particolarmente difficile decidere come votare”. Da allora se ne perdono le tracce per circa un anno (che sia rimasto chiuso nella toilette?). Il trust dei fiammiferi. La discesa in campo di Berlusconi non lo trova impreparato: non si candida, ma appoggia il Patto Segni, alleato al Centro con il Ppi di Mino Martinazzoli. Il Cavaliere comunque stravede per lui, memore dei decreti pro Fininvest. E nelle prime riunioni preparatorie di Forza Italia ad Arcore si spertica in elogi, esortando con Gianni Letta e Fedele Confalonieri i direttori dei giornali e delle tv del gruppo a sostenere il suo governo. Infatti, il 9 novembre 1994, il premier Caimano sceglie proprio Amato come presidente dell’Autorità garante della Concorrenza (l’Antitrust): “È una personalità di prestigio indiscusso e di grande competenza giuridica”, spiega: “L’autorevolezza del presidente Amato è garanzia di indipendenza e di obiettività di giudizio”. Lì, per tre anni, il Dottor Sottile sarà talmente indipendente e obiettivo da non accorgersi del più spaventoso trust editoriale e pubblicitario del mondo: quello della Fininvest di Berlusconi, che lui stesso ha contribuito a creare. In compenso spezza le reni a un trust ben più grave e minaccioso contro il libero mercato: le scatole di fiammiferi. Che – de
nuncia – possono ospitare pubblicità a differenza degli accendini. Furibondo, Amato scrive una lettera grondante di sdegno ai presidenti delle Camere, al premier Prodi e al ministro Bersani perché provvedano immantinente: “Fiammiferi e accendini sono prodotti che assolvono alla stessa funzione d’uso e l’esistenza di due distinte discipline normative determina una disparità ingiustificata di trattamento a favore delle imprese attive nella produzione e commercializzazione di fiammiferi”. Ecco perché non vede il caso Fininvest: ha sempre un fiammifero negli occhi. Da Squillante a D’Alema. Nel 1996 il suo nome torna nelle cronache giudiziarie per le intercettazioni e i tabulati telefonici del giudice Renato Squillante, il capo dei Gip romani di stretta osservanza socialista e poi berlusconiana, arrestato per corruzione giudiziaria: poco prima della cattura, “Renatino” si consultava con Amato e Antonio Maccanico per decidere se accettare o meno la candidatura al Senato in Forza Italia. Nel 1997 Amato si butta a sinistra. È un fedelissimo di D’Alema (quello che quattro anni prima lo mandava “affanculo”), il quale lo vorrebbe al suo fianco nel progetto della “Cosa 2”, per una nuova formazione di sinistra socialdemocratica che affossi l’Ulivo del premier Romano Prodi. B. è raggiante: “Non dobbiamo intravedere in questo progetto qualcosa di negativo per il Polo” (3-7-1996). Amato è molto tentato, ma basterà un fax da Hammamet per mandare tutto in fumo.