di Stefania Parmeggiani
Il Cinema America a Roma dove anche Jeremy Irons è salito sul palco. L’ex ospedale psichiatrico giudiziario a Napoli. Il laboratorio artistico calabrese di Amantea. Il Macao di Milano…
Che cosa fa per noi la nostra meglio gioventù
Aveva ragione Bernardo Bertolucci: la cosa più incredibile è che all’inizio di cinema non sapevamo quasi niente ». Sorride Valerio Carocci, 27 anni, anima dei ragazzi del Cinema America. Adesso che le loro magliette sono diventate il simbolo dell’Italia che resiste, adesso che persino Jeremy Irons le ha indossate, quei giorni del 2012 sembrano lontani. Un gruppo di studenti decide di occupare un cinema abbandonato di Roma, rione Trastevere. Tutto intorno altri lo stanno facendo: lavoratori o precari dell’arte e dello spettacolo convinti che la cultura sia sotto attacco, studenti decisi a riappropriarsi della città. Il Teatro Valle e il Nuovo Cinema Palazzo di Roma, il teatro Coppola di Catania, l’ex asilo Filangieri di Napoli, il teatro Rossi di Pisa, il Macao a Milano diventano i punti cardine di una nuova Italia, giovane e imprudente, invisibile ai più ma incredibilmente tenace. Un’Italia che negli anni dei porti chiusi, delle ruspe e dell’indifferenza non smette di ribollire. Che cresce nelle periferie, nelle aeree dismesse, abbandonate o dimenticate. E continua a sognare.
« Mappando i luoghi pubblici abbandonati di Roma — ricorda Carocci — scoprimmo che il Cinema America, costruito nel 1956 dall’architetto Angelo di Castro, stava per essere riconvertito in parcheggi e appartamenti » . Dopo mesi di assemblee con i residenti inizia l’occupazione. « Visto che avevamo una sala e uno schermo ci siamo procurati un proiettore, di quelli da ufficio, e abbiamo iniziato coi film». Bloccata la demolizione della sala, vengono sgomberati. Non si arrendono, accendono il proiettore in un ex forno e poi ovunque, anche sui muri, sul Lungotevere come in periferia. Li chiamano “ schermi pirata”. Nascono le arene estive a Trastevere, Tor Sapienza e Ostia. Proiezioni e dibattiti, tutto gratuito.
« All’estrema destra — racconta Valerio — non piace chi va nelle periferie, chi parla di solidarietà e inclusione, chi ascolta e dà voce alle battaglie dei residenti » . L’estate 2019 fa paura: giovani accerchiati, intimiditi e picchiati perché indossano la maglietta del Cinema America, mandati in ospedale da estremisti vicini a CasaPound e Blocco Studentesco. Arene blindate dalla polizia, oltre centomila spettatori di ogni età, settemila magliette vendute e indossate in ogni angolo d’Italia. I ragazzi venuti dalla periferia, ormai riuniti in associazione e impegnati a riaprire un’altra sala, il Cinema Troisi, diventano un simbolo. Di cosa? «Dell’Italia che resiste, che si riappropria di luoghi abbandonati, che li rigenera opponendosi alla violenza, al razzismo, al sessismo, al vuoto culturale, alla narrazione di città che non sono spente, ma che al contrario ribollono di energia ».
Sono in tanti ad alzare la voce senza avere un microfono, ad auto-organizzarsi per costruire da soli ciò che manca. Ognuno con la propria formula. In Calabria un gruppo di ventenni e trentenni, riuniti nell’associazione culturale La Guarimba, usa la cultura come veicolo per promuovere valori di democrazia partecipativa, integrazione e accessibilità: un festival di documentari, una residenza per filmaker, una biblioteca per il centro rifugiati, una scuola montessoriana di cinema e animazione. E anche un progetto di riqualificazione urbana che invita ad Amantea, provincia di Cosenza, artisti da tutto il mondo. Nell’Italia centrale, nei paesi colpiti dal terremoto, un altro gruppo di giovani fonda l’associazione Aristoria e si mette alla guida di un furgone per raggiungere le zone rosse e proiettare film muti con musica dal vivo. L’idea è quella di riunire le comunità disperse, almeno per una sera.
A Napoli l’imprudenza spinge i giovani nel cuore dei quartieri, dentro ai buchi neri della città. Dicono di essere “pazzi” i ragazzi che nel 2015 scelgono di occupare l’ex ospedale psichiatrico giudiziario di via Imbriani, rione Materdei. Pazzi come Pino Daniele, pazzi perché decidono di forzare la porta di quel carcere e di trasformarlo in un’alternativa al mondo che vedono ogni giorno e che gli piace sempre meno: «Eravamo studenti, precari e disoccupati. Inizialmente pensavamo di trasformare questi novemila metri quadrati in uno studentato ma poi, una volta dentro, è cambiato tutto » . Matteo Giardiello, oggi neolaureato in Relazioni internazionali all’Orientale di Napoli, sale le scale dell’ex opg. Il primo piano è spazio della memoria: corridoi stretti e lunghi, pochissima luce, cancellate di ferro, portoni scuri con minuscoli spioncini, pezzi di letto, pareti ricoperte di scritte, frasi sconnesse, parole incomprensibili, celle e stanze di contenimento: «Per primi sono arrivati i bambini con il pallone sotto il braccio, cercavano un posto per giocare a calcio. Poi le mamme che si lamentavano per i compiti, infine le signore anziane. Ci siamo trovati il quartiere in casa e abbiamo capito che le esigenze erano altre » . Costruiscono un campo da calcetto, un asilo autogestito, una biblioteca, una palestra, un cinema, un teatro, una cucina popolare, una camera oscura, aule studio, un doposcuola per bambini, laboratori di lingue, informatica, pittura, uno sportello migranti e uno dedicato al lavoro. Persino un ambulatorio: quattordici medici specialistici, volontari come tutti gli altri. Da due anni l’ex opg è diventato il cuore di Potere al Popolo, la formazione che si presentò alle elezioni citando Shakespeare. La politica non ha scacciato l’impegno sociale e l’attivismo. Lungo questi corridoi, tra i murales — quello sulla facciata è di Blu — le locandine del festival Je so’ pazzo e di decine di altri eventi culturali, si continua a parlare la lingua delle origini: «L’ex opg non è nostro — precisa Matteo — è un bene comune». Come altri spazi sottratti al degrado da gruppi di cittadini, che li hanno prima occupati — loro dicono “liberati” — e riempiti di contenuti per restituirli alla città.
Come l’ex asilo Filangieri, in pieno centro storico, il primo ad essere riconosciuto “ spazio ad uso civico e collettivo” dalla giunta de Magistris grazie alla delibera numero 446 del 2016, scritta con uno staff di giuristi tra cui Stefano Rodotà. Una partita difficile, segnata da violente polemiche, ma che ha trasformato un convento del Cinquecento, in gran parte inutilizzato, in un esperimento di lotta e creazione artistica.
Gli attivisti de L’asilo— « niente nomi, non vogliamo personalizzare una esperienza collettiva » — ci guidano nelle stanze destinate alla ricerca artistica e culturale. Nel cinema, allestito nell’ex cappella, tre ragazzi provano uno spettacolo. Nel teatro un attore legge ad alta voce. In biblioteca un programmatore applica l’utopia marxista alle nuove tecnologie: «Sto lavorando a Cubotto, un software che permette di raccogliere filmati audiovisivi, di classificarli e inserirli in un archivio a cui chiunque può accedere col suo server diventando a sua volta distributore e archivista». Parla di rete libera e indipendente, di open source e storie. Infinite storie a disposizione della collettività, sottratte ai padroni della Rete, le multinazionali dei Big Data.
Sembra il sogno di un visionario, ma è già presente: le immagini scorrono sul computer, il futuro è a portata di mano. Così come sembrano concreti e vicinissimi i sogni dei ragazzi che a Milano affollano le stanze del Macao, un centro indipendente per le arti, la cultura e la ricerca nato dall’occupazione della Torre Galfa e approdato nell’ex Borsa del macello di viale Molise. Alessandro, Valerio e Andrea scendono le scale con il chiarore che ancora filtra dal lucernaio. Un gradino alla volta di questa palazzina liberty fino al seminterrato, che Manu Invisible, l’artista mascherato dei cavalcavia, ha scelto come studio. «Siamo tatuatori — spiegano — ma non decoriamo corpi e non lavoriamo su commissione, facciamo ricerca». Ventenni senza confini, sono in contatto con colleghi tedeschi, francesi, spagnoli, olandesi, americani e canadesi. Studiano tecniche ed estetica del tatuaggio contemporaneo, dicono che stanno esplorando strade nuove e qualsiasi cosa significhi non sarebbe stato possibile senza questo edificio pieno di calcinacci e vetri rotti, sottratto almeno per il momento alle logiche del mercato.
Mentre parlano dei loro progetti, lo sguardo acceso e le voci che si accavallano, Manu Invisible mostra uno dei video che ha girato con cavalletto e drone sulla scena del crimine: lo scheletro del ponte Morandi. Per tre notti ha scavalcato le recinzioni e ha lasciato il segno: la parola reviviscenza a caratteri cubitali e grafici, leggibile a chiunque: « Indica la capacità che alcuni organismi hanno di tornare alla vita, è un omaggio a Genova ». Durante l’estate ha restaurato la navata principale al primo piano dell’ex Borsa: « Questo posto è una grande casa e merita rispetto » . E non importa che da tre anni siano senz’acqua, che la debbano portare con un’autocisterna, che i ragazzi del laboratorio di serigrafia riempiano le taniche al parco per mettere in funzione l’idropulitrice, che la sala prove sia stata insonorizzata da chi voleva utilizzarla, che i bagni si intasino, che mentre dipingono, suonano, girano video, proiettano film, leggono libri, dal soffitto cadano croste di vernice. Non importa perché finalmente a Milano hanno trovato un luogo dove crescere. Per tre settimane il corso di design dell’Università di Amsterdam si è fermato qua, tra queste stanze, progettandone il restauro. Nel frattempo altri studiavano il modo per applicare in Italia il modello creato dal Mietshäuser Syndikat di Berlino: l’acquisto collettivo di un edificio con il vincolo che la proprietà non sia più vendibile, un contratto di diritto privato che sottrae per sempre un bene al mercato.
«Abbiamo presentato in Comune una manifestazione di interesse, ma non è successo nulla», spiega Diego Weisz, uno degli storici occupanti, seduto nell’atelier di Nicola Oriani, tra collage e pile di vecchie riviste. Non che uscire dall’illegalità di per sé interessi agli attivisti del Macao. Lo farebbero solo per guadagnare un po’ di tranquillità, ma non se il prezzo da pagare è la rinuncia alla gestione libera e collettiva. « Ogni decisione è presa in assemblea con il metodo del consenso » , precisa Giubia, che dopo essersi occupata di eventi e comunicazione in mezzo mondo, Azerbaijan compreso, ad appena trent’anni è tornata in Italia: «Al Macao c’è energia, sperimentiamo forme nuove di organizzazione e finanziamento » . Battono anche moneta, Commoncoin, una specie di criptovaluta nata in queste stanze e circolata in Italia con nomi diversi. Nel 2018, ribattezzata Santa Coin, è stata spesa a Santarcangelo di Romagna nei giorni del festival del teatro. Un’altra Italia è possibile sul terrazzo del Macao, a Trastevere e nelle periferie di Roma, nelle zone rosse del terremoto, nel cuore della Calabria. Un’altra Italia è possibile, dicono nei vicoli di Napoli, «e lo Stato questa volta non ci deve condannare».