Quanto ci manca Tony Judt

Grandi storici. Gli scritti dello studioso scomparso dieci anni fa ne confermano profondità d’analisi e preveggenza:dalla Guerra fredda alla crisi della socialdemocrazia, dall’ascesa del neoliberismo ai limiti del progetto europeo

«La Londra postbellica, dove sono cresciuto, era un mondo alimentato dal carbone e azionato dal vapore, nel quale i venditori ambulanti usavano ancora i cavalli, le automobili erano rare e i supermercati (e gran parte di ciò che vendono) sconosciuti. Per la sua geografia sociale, il clima e l’ambiente, le relazioni di classe e gli allineamenti politici, le attività industriali e l’abitudine alla deferenza sociale, nel 1950 Londra sarebbe stata immediatamente riconoscibile a un osservatore di mezzo secolo prima». Questo brano, che apre la recensione di un libro di John Lewis Gaddis sulla Guerra Fredda, restituisce con efficacia una delle caratteristiche di Tony Judt. Storico della contemporaneità, una categoria dai confini continuamente rimessi in discussione, Tony aveva il dono di riportare alla vita il passato recente, mostrando quanto esso sia ancora qui, a condizionare il nostro modo di parlare, di pensare e di vivere. Quando si venne a sapere della malattia che lo avrebbe portato alla morte, a soli sessantadue anni, nel 2010, ne fui profondamente colpito.

Tony era un uomo straordinariamente attivo e vitale, sempre in movimento tra le due sponde dell’Atlantico, e si scopriva affetto da un male che lo avrebbe lentamente privato della possibilità di muoversi, e infine di parlare, ma senza togliergli la lucidità, per poi ucciderlo. Un destino crudele. Chiunque altro sarebbe stato schiacciato da questa sentenza di morte, ma non lui. Al contrario, gli ultimi mesi di vita, ormai confinato a letto, privo della possibilità di parlare, furono una lotta contro il tempo per portare a termine il libro sul Ventesimo Secolo che poi vide la luce postumo nella forma di un’intervista con Timothy Snyder (Novecento, Laterza, 2012).

Lo stesso editore che ha pubblicato quel volume, e buona parte dei lavori più importanti di Tony Judt, ci mette ora a disposizione una raccolta di scritti (recensioni e saggi) del periodo che va dal 1995 al 2010. Si tratta di un genere letterario poco praticato dagli storici italiani, che prediligono le monografie, ma che si adattava splendidamente alla inesausta curiosità di Tony, un lettore instancabile e vorace, che padroneggiava diverse lingue, e aveva familiarità con buona parte dei grandi dibattiti della cultura europea del Novecento. Con lui si poteva conversare di teoria politica e di letteratura, di istituzioni e di fenomeni di costume, sempre imparando qualcosa.

Era cresciuto nella Londra del dopoguerra, traendo beneficio, come egli stesso ha ricordato, da un sistema di educazione pubblica (ormai quasi del tutto smantellato da anni di riforme neoliberali) il cui scopo era dare opportunità a giovani promettenti ma privi di mezzi. Diversamente da buona parte dei suoi colleghi (aveva studiato a Cambridge) si era lasciato alle spalle il Regno Unito per misurarsi con altri ambienti. Parigi, dove si era formato all’Ecole Normale Supériore, e poi gli Stati Uniti. Quando l’ho conosciuto era professore di European Studies alla New York University, dove dirigeva il Remarque Institute, un centro il cui compito era promuovere il dialogo tra Stati Uniti ed Europa. Tra le iniziative cui teneva di più c’erano i seminari residenziali di Kandersteg, in Svizzera, dove giovani studiosi provenienti da diversi Paesi si incontravano per discutere di temi di interesse comune. Dopo le sessioni di lavoro, cui partecipava con intelligente discrezione, facendo in modo che la discussione procedesse fluida, anche quando si affrontavano argomenti “sensibili” (poco dopo l’11 settembre c’era solo l’imbarazzo della scelta), Tony proponeva spesso una passeggiata nei dintorni, per continuare la conversazione.

Sfogliando Quando i fatti (ci) cambiano, ritrovo molti dei temi che ci appassionavano nel corso di quelle passeggiate: il 1989 e le sue conseguenze, la Guerra Fredda, le diverse culture politiche europee, l’ascesa del neoliberalismo e la crisi della socialdemocrazia. Grandi intellettuali come Leszek Kolakowski, François Furet, e Isaiah Berlin. Un autore amato da entrambi, col quale credo Tony avvertisse una speciale affinità, per via di un percorso simile: ebrei europei le cui famiglie erano state private di una patria dal Nazismo e dalla guerra, che avevano trovato rifugio in un’Inghilterra che, prima ancora che un Paese, era un luogo dello spirito. Quel Paese sospeso tra un passato di grande potenza e un presente di declino, che affiora in diversi saggi di questa collezione, e che tuttavia riscattava il proprio passato coloniale con la sua cultura liberale.

Tra gli altri, credo siano due i saggi da segnalare in questa raccolta per la loro attualità. In primo luogo «Europa: la grande illusione», una disamina lucidissima e urticante dei limiti del progetto europeo, scritta da un intellettuale che, come lui stesso diceva, non era affatto un euroscettico, ma un europessimista. Cioè una persona che cercava di andare oltre la retorica per portare alla luce i conflitti di interesse, le miopie, gli errori che mettevano in pericolo il sogno europeista. Pagine che rilette oggi, dopo la crisi del 2008, mentre i migranti vengono respinti al confine greco, e in un’Italia in lockdown per via del coronavirus, sono sinistramente preveggenti.

Seguendo l’esempio dei grandi intellettuali del Novecento alla cui lezione si era formato, Tony Judt era convinto che il compito dell’intellettuale non sia di fare l’apologeta di una politica, anche se il progetto di cui si parla è animato dalle migliori intenzioni. Chi studia e ragiona deve mantenere la capacità di mettere in luce gli errori della politica, per aiutarla a correggerli. Per questo non si può avere una democrazia sana senza intellettuali indipendenti e senza una sfera pubblica vivace.

L’altro saggio che consiglio ai lettori è «Che cosa è vivo e cosa è morto nella socialdemocrazia?». Anche in questo caso si tratta di un testo profetico. Scritto nel 2009, a pochi mesi dal crollo di Lehman Brothers, denunciava con efficacia il vuoto lasciato, dopo il 1989, dall’eclissi del socialismo nella politica occidentale. Un vuoto che andava colmato in qualche modo, ammoniva Judt, perché solo così saremmo riusciti a preservare il compromesso virtuoso che ci ha regalato decenni di coesistenza pacifica tra Capitalismo e democrazia. Quando Tony scrisse quel saggio, Bernie Sanders era un politico democratico quasi sconosciuto fuori dal Vermont, e Alexandria Ocasio-Cortez una ventenne alle prese con la scelta di un futuro. L’ammonimento con cui si chiude quel saggio sulla socialdemocrazia fa riflettere: «Perché abbiamo avuto tanta fretta di indebolire le dighe laboriosamente innalzate dai nostri predecessori? Siamo così sicuri di non andare incontro a inondazioni?». Come molti altri, in questi anni mi sono chiesto cosa avrebbe detto Tony della Brexit, di Trump, dei muri (lui che era uno che intellettualmente non conosceva confini, e sapeva costruire ponti tra culture).

Leggere questo libro non può colmare il vuoto che Tony Judt ha lasciato, ma ci aiuta a guardare avanti, come lui ha sempre fatto, perché «se si vuole davvero cambiare il mondo, bisogna essere pronti a lottare a lungo».

 

Quando i fatti (ci) cambiano

Tony Judt

Laterza,Bari-Roma, pagg. 412, € 28

 

Mario Ricciardi

Britannico. Tony Judt nacque nel 1948 a Londra e morì a New York nel 2010. I suoi studi e saggi erano dedicati alla storia europea