Venezia 2018 / “Capri Revolution”, “Shadow”
1915, Escape from Capri
Roberto Silvestri
Capri 1914, luogo nietzschiano perfetto per creare l’“Ecce donna” dionisiaca, ovvero Capri Revolution, la terza parte della trilogia sull’Italia di Mario Martone, dal Risorgimento imperfetto alla prima guerra mondiale catastrofica, passando per Leopardi. Proprio nei paesaggi dove Lenin e Bogdanov, in fuga dopo la sconfitta del 1905, avevano poco prima giocato a scacchi e risolto con una sola mossa del cavallo le primarie del Partito Socialdemocratico Russo pronto per la Rivoluzione, Martone scopre altri rivoluzionari, verdi e non rossi, che nell’isola stavano anticipando i tempi (la fabbrica come macchina per intossicare l’uomo nuovo, prefigurazione di Bagnoli e dell’Ilva, come già si vede in Peterloo). Vegetariani, antimilitaristi, orientalisti, contro la famiglia mononucleare, pacifisti, animalisti, nudisti, internazionalisti, già concettuali come Merz e Beuys, proprio come i membri danzanti della comune di Karl Wilhelm Diefenbach, un pittore realmente esistito che non dipingeva più (ma i suoi quadri sono in un museo di Capri), sperimentando arti più sinestetiche e collettive: il ballo, il rito, la musica improvvisata post-occidentale, la land art, il furto di vasi antichi strappati al mare, l’agricoltura alternativa, per allargare gli orizzonti della coscienza, per cogliere dietro l’energia che tutto collega il sacro, per scoprire il calore collettivo al di là del colore individuale. Erano gli anni del nudismo come liberazione del corpo, pratica artistica anti-borghese nordamericana (Craig) e nordeuropea (Klimt….) diffusa e perseguitata e che arrivava in un sud completamente a digiuno di puritanesimo ma che faceva dello spiccato senso dell’umorismo come arte di piazza un più simpatico scudo rispetto alle novità del moderno. Rovesciare Ecce homo, abbiamo detto. Sono le donne che in quegli anni mettono in subbuglio il mondo, dalle suffragette alle dive della lirica e del cinema, alle scienziate e alle artiste, poi cancellate dai ragionieri della memoria. Qui la donna in rivolta è Lucia, fa la capraia ed è analfabeta ma con dna sapiente, attorniata da un mondo immobile che ha dimenticato il passato e vuole cancellare il futuro. Li scoprirà, quei nudisti reichiani eccitanti, se ne scandalizzerà, li incorporerà, se ne innamorerà, li scavalcherà, fuggendo alla fine verso l’America e (si spera) verso un nuovo capitolo dell’Italia non riconciliata martoniana (fa ben sperare l’ultima inquadratura, la prima con il grande attore Roberto Di Francesco). La prima guerra mondiale non distrusse solo l’Impero centrale. Ma anche la donna liberata. Il film invece restituisce quel momento magico, il “prima di una rivoluzione” interrotta. Dare altri significati a: il cibo, il corpo, la casa, il riso, il calore, il rumore e il colore delle rocce, delle persone, delle parole. La materia, microfotografata fino allo stadio della sua scomposizione, perché quel nulla vive e muove, quel silenzio risuona. Già, scienza e arte godono, nell’epoca del pensiero negativo, di una sorte comune. Mezzo secolo dopo, proprio nel risorgimento femminista, ripartiranno da lì il Living Theater di Judith Malina e Julian Beck, le performance più “cruente” e scandalose della comune austriaca perseguitata di Otto Muhl e il proletariato giovanile alla caccia di polli gratis in Parco Lambro di Alberto Grifi. Esplicito il riferimento nel film ai gruppi chiave, libertario il primo, inquietante e “sacrilego” il secondo, completamente svestito di ideologie e di vestiti il terzo, della scena politica e sperimentale degli anni 60-70, e per la nascita di Falso Movimento, di cui Mario Martone fu giovane regista. Se c’è però un riferimento cinematografico che viene in mente vedendo Capri-Revolution è Isadora di Karel Reisz, i nudi, più Ice di Robert Kramer, la profezia della sconfitta. Cosa volete di più da un film turisticamente scorretto (riprese in Cilento) che risarcisce tutto questo e riesce a far ballare insieme il “blu Martone” del mare, il “giallo Martone” del sole, il “bianco Martone” delle capre e il “rosso Martone” del sangue? Molto bella dunque anche la terza opera “arcobaleno” italiana in concorso, femminista come le altre due (all’origine c’è un libro su Capri e i suoi segreti vitali, della critica d’arte Lea Vergine), ma più cine-femminista ancora, come se fosse l’omaggio, da regista napoletano a regista napoletana, alla pioniera del cinema neorealista italiano, Elvira Notari che si gettava nelle strade e nelle passioni con la stessa foga contadina di Lucia (una Marianna Fontana “indivisibile”, nel perseguire l’obiettivo con determinazione inscalfibile dal personaggio di riferimento, Federico Fellini attore dell’episodio di L’Amore girato negli stessi paesaggi) che del film è la cariatide, la dinamo, la inebriata e la critica, infine, di quel processo sovversivo. La mangiatrice di vita è più vorace. Una Nausicaa capace di scrivere l’Odissea. Una Notari senza macchina da presa, perché la regista geniale prebellica dei drammi sentimentali non bozzettistici, annichilita da Mussolini e dal fascismo, sarebbe sopravvissuta fino agli anni Venti solo grazie ai film diffusi appunto negli Stati Uniti, tra i nostri emigranti salvati dalle imprese imperiali coloniali, dal capofamiglia ancora più istigato al feroce machismo e dalle leggi razziali. Troppo bruciante era il suo contatto con la realtà per il Dux Lux.
Capri Revolution
Regia: Mario Martone
“Shadow”, le ombre lucenti di Zhang Yimou
Mariuccia Ciotta
La superficie argentata delle lame in un turbinio rotante di ombrelli taglienti, la discesa voluttuosa lungo una strada bagnata di pioggia, l’eleganza delle vesti volteggianti e leggere… Shadow (Ying, fuori concorso) è ancora nella coreografia sognante della XXIX Olimpiade firmata Zhang Yimou, il regista cinese di Lanterne rosse, La storia di Qiu Ju, Non uno di meno.
Rivisitazione del genere wuxia nella Cina dei Tre Regni in forma stilizzata con abiti e interni che condividono lo stesso cromatismo, stoffe bianche schizzate di inchiostro. Effetto bianco&nero, e almeno 50 sfumature di grigio. Le controfigure dei nobili cinesi si chiamano “Ombre”, sosia dei loro signori che vanno a morire al loro posto, e che la Storia ha dimenticato. Il potere assoluto dei re e dei militari si sgretola nel melodramma “cappa e spada” di Zhang Yimou che sostituisce alla filosofia della forza, dell’intrigo e del tradimento, la tecnica femminile della lotta. Guerrieri muscolosi e lance giganti, corazze e spade, re crudeli e capricciosi saranno battuti da una danza serpentina, dal movimento ondulatorio che costringe i combattenti a un balletto in stile Les Parapluies de Cherbourg.
Solo Zhang Yimou poteva capovolgere l’estetica del supereroe con tanto humour, e mettere in scena l’amore tra la Signora e l’Ombra, colui che non esiste, la “copia” del potente. Un’altra donna, offesa dalla richiesta di far da concubina per una alleanza tra Regni, si vendicherà in omaggio a Duello al sole. Scontri armati, sangue, battaglie epica… eppure Shadow sembra girato tutto in studio, dietro paraventi e pannelli trasparenti, scrigno di luci e oscurità. Vertigine emozionale, rimbombi elettrici provenienti da un’arpa-tastiera che diffonde suoni heavy-metal. Ma soprattutto in scena la trasformazione della guerra in musical.
Shadow (fuori concorso)
Regia: Zhang Yimou
Venezia 2018 / “American Dharma”, “22 July”
Morris vs. Bannon. Il generale Selvaggio e il documentarista bombardiere
Roberto Silvestri
Che sorpresa non vedere qui al Lido, dopo Salvini, anche Steve Bannon, il cervello dei conservatori americani, l’istigatore di Charlottesville, il fidato e astuto braccio destro di Trump nella fase finale, vincente e spettacolarmente scorretta della campagna presidenziale 2016. E non sentire neppure il suo nome scandito dall’altoparlante alla proiezione non pienissima di American Dharma (ovvero il destino, il fato e il dovere americano è quello di essere i killer del mondo, a fin di bene) che Errol Morris, il più adorato dei documentaristi-artisti, convinto elettore di Hillary, ha voluto realizzare con e sul suo ex compagno di studi ad Harvard, l’ “apocalittico razionale”, come si definisce, che vuol strappare i repubblicani ai petrolieri e fondare un “partito operaio nazionale d’America”. Perché parlare con Mazzarini moderni così pericolosi? Perché – spiega Morris – “con i nemici bisogna discutere, comprenderne le strategie”, smascherarne le bugie, convincerli dei loro errori, se no come si batte la destra suprematista, nativista e fascistoide, rampante in tutto il mondo? Perché, cerco di spiegarvelo, sono Richelieu “tigri di carta”.
C’è comunque chi assicura di avere visto il biondo e corpulento “Lucifero di Breitbart” (il sito on line di “fake news” finora più efficace della storia che si è avvalso di protettori ben globalizzati) intrufolarsi subdolamente nella platea del Palazzo del Cinema, ma più per citare, da cinefilo quale è, i tic nevrotici di Terrence Malick, che per paura di una sinistra festivaliera, che sembra sparita, o di una destra giustizialista. Ma le polemiche suscitate a New York e Londra dopo il doppio invito del New Yorker e dell’Economist e il boicottaggio dei loro festival da parte di Jim Carrey, Judd Apatow, Laurie Penny e Ally Fog che si rifiutano di discutere con questo nuovo prototipo di un-american, gli devono aver consigliato il profilo bassissimo.
Eppure della “requisitoria” di Errol Morris, 95′ di interrogatorio in un hangar d’aeroporto (per citare Cielo di fuoco, il film preferito da Bannon), opera prudentemente collocata fuori concorso da Barbera, il Falstaff di Trump (il Presidente si è poi sbarazzato del suo acuto giullare) è il protagonista assoluto. Qualcuno aggiunge stupito, non in qualità di imputato ma di interrogato mai troppo incalzato (se non attraverso la sovrimpressione dei titoli di giornali on line che commentano a raffica, approfondiscono e contestano le sue affermazioni: ma solo gli esperti in videogame riescono a seguire tutto senza giramenti di testa). Bannon oltrettutto si dice uno sfegatato ammiratore di The Fog of War e condanna il partito democratico per aver mandato a morire proletari nelle due guerre mondiali e in Vietnam. Dimenticando la repubblicana guerra di Corea, di Afghanistan e Iraq….
Certo, Morris non è un umorista d’assalto, come Michael Moore, non aggredisce, lascia piuttosto ai suoi soggetti la parola, in modo che quel che dicono venga usato contro di loro. O, almeno, rende un po’ più aromatici e poetici sciovinismo, ignoranza e fanatismo dominanti (Mike Leigh ci ha ben spiegato in Peterloo perché il modello democratico applicato in Usa, di derivazione britannico, permette di far perdere le elezioni a chi le vince con 3 milioni di voti in più: basta modificare le aree elettorali e usare con astuzia il maggioritario contro candidate precedentemente “distratte”).
Morris ha applicato il suo metodo di lavoro, con risultati stupefacenti, con McNamara, di cui abbiamo ben compreso prima di The Post la teoria della minimizzazione delle perdite in Vietnam (120 mila morti in Corea si ridussero a 60 mila), e, con risultati più modesti, con Rumsfield, che della gang Bush jr. è stato un pericoloso stratega, l’untore del radicalismo islamista nel pianeta e un ambiguo nemico-amico dell’Isis.
Bannon, come Trump e come Reagan è un politico sui generis. La triade viene dal mondo dello spettacolo (che è però solo un comparto minore dei megaconglomerati ingegneristico-managerial-finanziari). Reagan ex attore del cinema, Bannon ex regista di film di propaganda e organizzatore di “festival del cinema conservatore”, affinché anche la destra comprenda che la cultura (bitcoin compresi) deve guidare la politica; e Trump un ex divo della televisione e icona pop ben prima di convincere i suoi concittadini a portare alla Casa Bianca lui, erede di papponi del Klondike, perennemente rispettoso di quei valori aviti, anima della civiltà cristiana bianca. Ed è proprio alla Hollywood classica degli anni 20-50, e ai suoi divi mitici, John Wayne, Gregory Peck e Henry Fonda (così giocondamente fraintesi), che, come gli squadristi di Act of Killing, Bannon si ispira per raccontare la sua filosofia ed etica. Secondo Bannon, ammiratore di Napoleone e della Brexit, la globalizzazione provoca una reazione dal basso che senza immediati e radicali cambiamenti potrebbe sfociare in una pericolosa (auspicata?) rivoluzione sociale. Conferma, in questo senso, che contro Sanders lo scontro poteva essere perdente, mentre Hillary è caduta nella loro trappola, perché impossibilitata a rispondere con soluzioni concrete (muro, dazi, America First) ai diktat del mercato globale. Si ha l’impressione che Morris voglia rispondere a Bannon come le sue stesse armi. Producendo con il suo film un “sovraccarico sensoriale” che intontisca l’avversario (e il pubblico non esperto in informazione digitale). E utilizzi contro l’ammiratore di Alec Guiness e di Un ponte sul fiume Kwai e di Kubrick di Orizzonti di gloria, che molto poco hanno a che fare con la Hollywood classica, l’identica unità di combattimento che il generale Savage (Gregory Peck) ottimizza in Cielo di fuoco di Henry King (1949) l’unità di bombardieri 918. “Peck non è il mio mito, ma ha inventato la comunicazione moderna. A costo di farsi odiare utilizzare l’arma emozionale. Fuori uscire da sé, quando in gioco c’è il destino della Nazione. Diventare pedine del Fato. Semplificare semplificare, dice Bannon (in questo hitleriano). Complicare, complicare, risponde Morris. Le regole sono complicazioni. I politici sono complicazioni. Benemerite. Conquistate. Imposte dalla moltitudine.
American Dharma (fuori concorso)
Regia: Errol Morris