Se chiedete allo spettatore appena uscito dalle sale di Apocalypse Now un commento a caldo sul film, non è improbabile che la parola da loro più usata sia “attesa”. E fin qua di certo non si può parlare di novità, adducendo l’estraneità di questo stato d’animo al cinema e alla letteratura. È il caso di Aspettando Godot di Samuel Beckett in cui, in uno spazio-tempo non ben precisato, Vladimiro ed Estragone si ritrovano, nella (vana) attesa di un tal Godot (Dio? L’Amore?), a parlare fondamentalmente di tutto e di niente: un po’ come fanno gli uomini generalmente. È il caso de Il Deserto dei Tartari di Valerio Zurlini, trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Dino Buzzati, dove un cast straordinario (Jacques Perrin, Vittorio Gassman, Philippe Noiret e Max von Sidow, per citarne alcuni), affolla la Fortezza Bastiani, simbolo dell’attesa estenuante e dell’angoscia che provoca l’ignoranza del futuro (il nemico che non arriva mai). Nel film di Francis Ford Coppola l’attesa è la miriade di fiumi cambogiani e vietnamiti che il capitano Willard (Martin Sheen) deve attraversare per adempiere la sua missione: uccidere il colonnello Kurtz che, durante la guerra del Vietnam, ha voltato le spalle al quartier generale americano e si è messo a capo – in preda alla follia, dicono – di alcune popolazioni indigene in Cambogia.

Apocalypse Now è liberamente tratto dal romanzo di Joseph Conrad, Cuore di Tenebra. Anche qui il protagonista, Marlow, racconta in prima persona, quasi come annebbiato da una visione onirica, quasi come ripercorrendo un sogno, il suo viaggio alla ricerca del folle Kurtz nel cuore di una terra allora sconosciuta (heart of darkness), l’Africa. Il momento storico è la seconda metà dell’Ottocento quando, dopo la Conferenza di Berlino presieduta da Bismark, il sovrano belga Leopoldo II ottiene di fatto il controllo del Congo. Ma il dato geopolitico non deve trarre troppo in inganno. Lo stesso Conrad voleva che il suo racconto non fosse tropically treated e divenisse metafora del colonialismo umano e di ogni missione civilizzatrice e, in ultima analisi, dell’intero Occidente. E non è casuale quindi il riferimento che all’inizio della narrazione di Marlow viene fatto agli antichi romani.

L’imposizione della cultura latina verso i popoli conquistati, la proclamata alterità fra loro (i colti, i civili) e i barbari, la ricerca di un mantello di eloquenza e di fittizi valori con cui dissimulare l’opera di espansione e sterminio – ubi solitudinem faciunt, pacem appellant scrive Tacito nel De Agricola– sono ben esemplificati dall’imperialismo romano. E non è casuale, quindi, che Francis Ford Coppola – che qualche anno prima aveva spulciato tra le pagine di Mario Puzo per realizzare forse l’opera d’arte più bella di sempre, Il Padrino – abbia sfruttato la confessata acronìa del romanzo di Conrad per raffigurare l’egoismo umano nella sua veste più estrema, la guerra. In particolare, la guerra del Vietnam, divenuta terreno di combattimento (non solo per i soldati, ma anche) per i registi-superstar a cavallo degli anni’70-’80 per mettere in mostra le loro abilità: un po’ come per i fenomeni del mondo del calcio era la Serie A negli anni ’90. Ma se Stanley Kubrick in Full Metal Jacket prende di mira l’assurdità della guerra e di chi vi combatte, con la scena finale in cui i marines, terminata la battaglia, intonano in coro un’improbabile Mickey Mouse (la canzone di Topolino) mentre intorno a loro regna fuoco e distruzione; se Micheal Cimino ne Il Cacciatore, nella scena del gioco della roulette russa fra Robert De Niro e un ormai irriconoscibile Cristopher Walken, getta luce sulla tragicità della guerra e sulla sua capacità di uccidere (non fisicamente, ma) spiritualmente una persona; e se a Martin Scorsese in Taxi Driver basta la scena dell’”Ehi tu dici a me?” davanti allo specchio per far toccare con mano le conseguenze postraumatiche della guerra sul riadattamento di un reduce nella società, Francis Ford Coppola utilizza la voce e i giochi di luce sul viso di un inarrivabile Marlon Brando per porre in essere una critica più generale al nichilismo dell’Occidente e delineare una metafora su cosa sia veramente il Bene e cosa il Male.

Certo, non mancano elementi icastici della scellerata guerra del Vietnam. Tre in particolare: numero uno, la figura di Robert Duvall – che da fare il saggio consigliere Tom dei Corleone nel 1971 si ritrova a mettersi nei panni dello squilibrato colonnello Kilgore, solo otto anni più tardi -, un marine avido di odore di napalm a prima mattina e desideroso di cavalcare le onde del mare vietnamita perché “Charlie non fa surf!”; numero due, la Cavalcata delle Valchirie di Wagner, che fa da accompagnamento agli aviatori americani mentre bombardano interi villaggi; numero tre, la colonna sonora, The End dei Doors, la “beautiful friend” di ogni combattente. Ma le immagini della guerra sono solo il tramite grazie a cui squarciare le tenebre (non dei territori africani, come voleva Leopoldo II, ma) delle contraddizioni dell’Occidente, svelando cos’è l’orrore, l’orrore (sono le ultime due parole, gli ultimi due sussurri con cui si chiude il film).

Francis Ford Coppola, per svelare l’essenza dell’orrore (to make the darkness visible), si avvale della fotografia dell’Oscar Vittorio Storaro, il quale  gioca sui riverberi di luce che illuminano i contorni del colonnello Kurtz: Marlon Brando, una delle cose per cui vale la pena di vivere secondo il Manhattan di Woody Allen, insieme a L’educazione sentimentale di Flaubert, il vecchio Groucho Marx, quelle incredibili Mele e Pere di Cezanne e poco altro. L’attesa estenuante del Capitano Willard è costellata da dubbi e perplessità su quella figura misteriosa: come ha potuto un Colonnello americano, prossimo alla carica di Generale e leale servitore della Nazione, disertare, mollare tutto e scegliere di vivere tra gli incivili indigeni? La risposta che dà Conrad è il fascino dell’abominio: le “mostruose e gratificanti passioni”, gli “istinti brutali e dimenticati” che la società di massa impone di reprimere per stare in società gridano per liberarsi dalle catene da cui sono trattenuti. Kurtz è l’esemplificazione vivente della ribellione contro quella che Marcuse chiama la desublimazione repressiva. La liberalizzazione dei costumi e del sesso nel Novecento ha comportato la vittoria della libido sulla repressione della civiltà. Apparentemente Eros sembrerebbe libero di espandersi. Ma in realtà la repressione della società “progredita” costringe l’uomo a impiegare tutte le sue energie psicofisiche per scopi produttivi e lavorativi. Gli istinti reconditi non sono perciò liberi di esplicarsi, la dimensione dell’uomo è diserotizzata e persino l’Amore si riduce a semplice “tirannide genitale”. Kurtz non ci sta, è stanco di quei “cenci graziosi” che costituiscono la morale occidentale. Vuole ritrovare qualcosa di vero, di così primordiale e animale da conferire un che di genuino. Perciò Kurtz precipita giù, over the edge, trainato dall’avvenenza dell’abominio.

Già Bartolomeo de Las Casas della Scuola di Salamanca denunciava nel ‘500 l’”insatiabile avaritia et ambizione” degli Spagnoli che, issando il fasullo stendardo del cristianesimo, avevano massacrato migliaia di indios, trattandoli “non dico come bestie, perché piacesse a Dio che come bestie l’havessero stimate e trattate, ma come, anzi meno che lo sterco delle piazze”. Ma anche nel momento di autoconoscenza più lucido, il giorno della sua apocalypse, Kurtz rifugge da una visione manicheista di Bene e Male. Anche il Nuovo Mondo del colonnello Kurtz ha il suo dark side of the moon e anche qui alberga incontrollato l’orrore. Solo l’intuizione dell’orrore può riuscire a spiegare allo spettatore le immagini finali, in cui Francis Ford Coppola (con un montaggio che ricorda la scena del “rinunci a Satana?” durante il battesimo ne Il Padrino) interseca la sequenza della caduta del corpo possente di Marlon Brando con la sequenza  della flagellazione della vacca immolata per i riti cannibalici, in un susseguirsi di scene in cui i perimetri delle due figure sembrano confondersi, evocando allo spettatore una fusione dell’uomo – una sorta di panismo di stampo dannunziano – pressoché totale con la natura primordiale.

Ho visto degli orrori, orrori che ha visto anche lei. Ma non avete il diritto di chiamarmi assassino. Avete il diritto di uccidermi, questo sì, ma non avete il diritto di giudicarmi. Non esistono parole per descrivere lo stretto necessario a coloro che non sanno cosa significhi l’orrore. L’orrore ha un volto e bisogna essere amici dell’orrore. L’orrore ed il terrore morale ci sono amici. In caso contrario allora diventano nemici da temere. Sono i veri nemici…

E’ audace asserire se Francis Ford Coppola sia riuscito a mostrare le tenebre occidentali (to make darkness visible come voleva Conrad) attraverso la metafora dell’assurda guerra del Vietnam. Quel che è certo è che con questa guerra qualche tenebra è stata illuminata, se si pensa alle ondate rivoluzionarie di protesta dopo il Vietnam contro la follia americana, se si pensa al fate l’amore non fate la guerra o se si pensa a quell’epifania della molteplicità che fu il ’68. E quel che è certo è che, se attesa (un’Odissea a ritroso attraverso la civiltà occidentale) è la parola-leitmotiv che permette allo spettatore di viaggiare col capitano Willard alla ricerca del folle (ci sentiamo ancora di chiamarlo così?) Kurtz, sono altre due le parole che lo spettatore probabilmente non pronuncerà, ma con cui dopo Apocalypse Now dovrà imparare a convivere: l’orrore… l’orrore.