di Barbara Stefanelli
L’uomo in mimetica, barba e cappuccio guarda nella fotocamera e recita una poesia persiana: A cosa stai pensando? Il tuo amore ha bruciato fino alla cenere la giungla della mia anima. A volte mi chiedo chi ti darà notizia della mia morte. Si chiama Zhenya Perepelytsa, è ucraino, da ragazzo ha trascorso un anno a Teheran ed è lì che ha imparato quei versi in farsi, ora offerti alla prima linea innevata della guerra contro gli invasori.
Sulle piattaforme social gestite dai suoi attivisti, Aleksej Navalny, in cella dopo essere sopravvissuto a un avvelenamento e aver comunque scelto di rimpatriare, chiama i russi: «Vogliamo essere una nazione di pace. Non di codardi che fingono di non vedere l’aggressione scatenata da un re folle. Andate nelle piazze: alle 19 nei giorni feriali, alle 14 nei festivi. Non basta essere contro la guerra, bisogna combatterla».
Roger Cohen, giornalista del New York Times , chiude il suo editoriale da Parigi citando Hannah Arendt sui totalitarismi: in un regime di terrore, la maggioranza si adeguerà. Ma non tutti. E non è necessario niente di più – né di più potremmo chiedere – affinché questo pianeta resti un posto abitabile per gli esseri umani .
Olaf Scholz, cancelliere socialdemocratico tedesco, dice al Bundestag: «Dimostriamo di avere in noi la forza per fermare un guerrafondaio». Il presidente del Consiglio Mario Draghi spiega al Parlamento italiano: «La lotta che appoggiamo oggi, i sacrifici che compiremo domani sono una difesa dei nostri principi e del nostro futuro».
In una settimana, forse in una sola notte, qualcosa — o tutto — è cambiato. Dopo decenni di contenimento, di mercantilismi pubblici e anche privati, di Realpolitik celebrata come l’unico codice di sopravvivenza avveduta, si è generato un salto. L’indifferenza — parola che Liliana Segre ha voluto venisse incisa nel muro del Memoriale della Shoah di Milano, al binario 21, da dove partivano i treni per Auschwitz — attenua forse la sua presa. E a noi sembra di entrare, incerti ma senza imbarazzo, in una stagione di ritrovato idealismo democratico. Quello che ha rovesciato nelle strade decine di migliaia di persone vestite di giallo-blu. Mezzo milione sotto la porta di Brandeburgo, a Berlino, lungo un unico rettilineo che ha unito l’ex Ovest all’ex Est.
Aveva ragione Thomas Samuel Kuhn — fisico, storico e filosofo statunitense ( La struttura delle rivoluzioni scientifiche, 1962 ) — quando ragionava sulla discontinuità: non c’è solo il passo dell’accumulazione; esistono «svolte paradigmatiche», tra loro incommensurabili, che «comportano riconfigurazioni dei principi di fondo». Non è la prima volta che succede. Che saltiamo oltre la gradualità. Furono le accelerazioni di Giuseppe Garibaldi verso il Sud di due mondi ad alzare il vento del Risorgimento; furono il fuoco e il senso della Brigate Internazionali in Spagna a strappare George Orwell dal «profondo, profondissimo sonno dell’Inghilterra» ( Omaggio alla Catalogna ).
Ma proprio perché riconosciamo i segni, quello che stiamo attraversando ora — quello che sta succedendo a noi — va accolto e custodito, sfilato all’incredulità.
Molti infatti diranno: non dura, non durerà. E allora prendiamo nota: subito, insieme. Della guerra finanziaria senza precedenti; di un’Unione Europea che non teme di armarsi di più per difendere meglio i suoi valori; di Georgia e Moldova che ieri hanno chiesto di aderirvi; della Fifa che con un sussulto etico mette al bando la Russia; dell’oligarca Roman Abramovich, con cittadinanza a Londongrad, che vende il Chelsea e promette i ricavi alle vittime della guerra; della gente comune che si appresta a pagare il suo prezzo alla cassa della spesa o alla lettura dei contatori; delle migliaia di russi portati via dalla polizia per aver scritto “pace” sui coperchi delle scatole di scarpe. Di un popolo intero, quello ucraino, che, guidato da un leader che faceva il comico in tv ma non è fuggito al primo colpo di cannone come pronosticavano a Mosca, «ha mostrato la faccia, non le spalle» agli invasori. E adesso chiede a noi di «dimostrare di essere europei».
Il sistema delle democrazie liberali — spesso ostaggio di sé stesso, delle proprie mancanze e autoflagellazioni — non è ancora spiaggiato lungo la riva degli imperi. Non è vero che le democrature , nuove autocrazie, sono più efficienti. Questa guerra lo dimostra nonostante il serpente militare lungo 60 chilometri che si appresta a soffocare Kiev.
Dopo due anni di pandemia, di morte e lockdown; dopo i lunghi mesi — che ci sembrano lontanissimi, ma sono dietro l’angolo della memoria europea — degli attentati integralisti al Bataclan, ai mercatini di Natale, sulle Ramblas; dopo i ritiri rovinosi da altre guerre nelle quali pure per vent’anni avevamo creduto. Dopo tutto questo e per tutto questo, possiamo ritrovare le radici di quello che siamo. Non solo: possiamo riconoscerle in generazioni nuove, quelle che spaventano Vladimir Putin nel suo castello di fantasmi novecenteschi. Gli studenti lo spaventano più dei professori che volevano esportare la democrazia. Lo spaventano perché rappresentano un altro Occidente possibile, non quello che uscì dal 1945 , oltre quello del 1989.
La distanza tra quanto potrebbe venire e un mondo arcaico si misura nella differenza tra Volodymyr Zelensky che tiene in mano il cellulare mentre dice «Io sono qui, onore agli eroi» — soltanto un braccio di distanza tra lui e tutti noi — e i 20 metri del tavolo dal cui angolo l’aspirante zar Putin lancia solitario i suoi editti contro una banda di presunti «nazisti drogati». Il primo vicino, semplice, capace di trovare le parole per raccontare una storia che è Storia. Il secondo così inespressivo, nonostante la brutalità, da sembrare in trance, occhi senza sguardo, perso in una bolla dentro la quale finisce per credere alle sue stesse bugie.