di Massimo Franco
Si nota una «diplomazia degli abbracci» parallela a destra e tra i grillini. Gli abbracci plateali di ieri a Roma tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni per smentire qualunque conflitto, somigliano alla negazione che Giuseppe Conte fa di un dualismo con Luigi Di Maio. L’unica differenza è che i primi riguardano i capi di due partiti sovranisti da mesi in aperta competizione e polemica. I complimenti dell’ex premier al ministro degli esteri grillino rimandano invece a una faglia aperta e nascosta a fatica all’interno dello stesso Movimento Cinque Stelle.
La tregua nelle formazioni populiste è destinata a entrare in crisi molto presto. Di Lega e Fratelli d’Italia si è già parlato molto, in queste settimane. E l’ombra spessa di una possibile sconfitta in alcune grandi città si sta allungando su tutto lo schieramento di centrodestra, mettendone in tensione la tenuta. Il conflitto tra grillini, invece, è tenuto a freno dall’esigenza di non mostrare le crepe di una situazione già compromessa; e di evitare che un insuccesso a Roma, Torino, Milano sia imputato a Conte o Di Maio.
Le premesse della resa dei conti ci sono tutte. L’insistenza dell’ex premier tra la sua leadership «nuova» e un «vecchio» M5S ormai inservibile è vissuta con fastidio. E il modo in cui Conte si prepara a intestarsi qualunque segnale di ripresa fa il paio con la volontà dei suoi avversari interni di attribuirgli la sconfitta. È vero che le convulsioni degli ultimi giorni nella Lega salviniana potrebbero travasare verso il M5S una parte del voto populista.
Eppure la prospettiva di arrivare al ballottaggio, soprattutto a Torino ma anche a Roma, rimane estremamente in forse. Conte lo sa così bene che continua a parlare di un «primo test», che non può essere interrotto da un risultato negativo. Aggiunge che Di Maio «ha sposato il nuovo corso». E sostiene di avere «messo la faccia» in questa campagna elettorale «soprattutto a Napoli», dove il M5S è alleato col Pd e le possibilità di un successo sono maggiori. Non solo. Assicura di non avere nostalgia di Palazzo Chigi. E cerca di smentire i sospetti di volere arrivare a elezioni anticipate dopo la scelta del capo dello Stato, all’inizio del 2022.
Dunque, giura che Mario Draghi deve andare avanti fino al 2023, sebbene rivendichi quotidianamente i suoi anni da premier. Nella sua analisi, la ripresa economica superiore al 6 per cento ottenuta dall’attuale governo sarebbe frutto delle scelte del precedente: il suo. È un modo per tenere viva una popolarità in progressivo calo; e per lanciare segnali a quanti, nel partito di Enrico Letta, non rinunciano all’asse col M5S e vivono questa fase con sofferenza. Ma se il voto di domenica dovesse restituire un grillismo marginale, del «nuovo corso» si analizzeranno i limiti, non le potenzialità.