UNA RIVELAZIONE IMPROVVISA

Proseguono, a stento purtroppo causa precauzioni antipandemiche, le celebrazioni senesi dedicate a Federigo Tozzi pensate in coincidenza con il centenario della morte dello scrittore. Si tratta di aperitivi rispetto al grosso del calendario, che sarà attuato l’anno prossimo, speriamo, nella sua organica interezza. Tra gli appuntamenti sui quali riflettere è da segnalare quello svoltosi i primi d’ottobre nel contesto di qualche anticipazioni del festival “Sì Siena, linguaggio tra terra e cielo”, in agenda per il 2011.  Regista del tutto Davide Rondoni, tra presentazioni di libri, recitazioni e danze con nomi risonanti: da David Riondino a Alessandro  Preziosi, a Antonio Moresco. Per quanto riguarda Tozzi momento da non trascurare, anzi momento chiave per cogliere l’ottica alla base delle breve kermesse, è stata la discussione attorno ai due volumetti editi da Raffaelli, di Rimini, e curati da Gianfranco Lauretano: il saggio dello stesso Lauretano “Federigo Tozzi, Una rivelazione improvvisa” e un pugno di poesie di Federigo, raggruppate in una plaquette dal titolo “Specchi d’acqua”. Si sa quanto l’esistenza di Tozzi sia stata tormentata e piena di intoppi, di inesplicati segreti, di rabbiosa voglia di successo. Tozzi è un caso difficilmente ascrivibile a una delle etichette che pullulano nei manuali di storia della letteratura. Sta stretto in qualsiasi spazio del canone prevalente s’intenda piazzarlo. Anarcoide e socialista in gioventù, convertito al cattolicesimo e sodale del sanfedista Domenico Giuliotti, immerso a sbalzi in un senso della religiosità biblicamente terrorizzante e punitivo, il suo itinerario è tutt’altro che lineare. Nello scritto del 1913 “La mia conversione” confessa di esser pervaso da una «fede, quasi furiosa, piena di violenze che nessuna energia potrà diminuire». E chiude con toni di eccitato vitalismo: «Questa mia inaspettata giovinezza nova mi esalta quanto m’è necessario. E quando penso ch’essa procede da una realtà divina e immortale, poco mi curo di tutto il resto». Sembra più di registrare un cambio di segno ad una continuità di carattere che gli accenti di una pacificante svolta spirituale. Nel 1913 uscì anche “La Torre”, foglio torvamente reazionario: «Sopra ogni modernistico edificio di capecchio – si legge del proclama programmatico – rovesceremo fiamme. (Avvertiamo che nella parola Modernismo sono comprese tutte le manifestazioni eterodosse, dalle fringuellaie femministe all’attentato anarchico)». È stato osservato che Tozzi stette nell’impresa accanto a Giuliotti, vero ideologo dell’effimero periodico, ma ciò non toglie che si rese di fatto partecipe di una visione che si opponeva in nome della tradizione ad una laica modernità. Tozzi va interpretato non antologizzando per comodo di tesi un segmento del suo labirinto.  Fu amante dei primitivi, appassionato di pagine mistiche – santa Caterina in primis – e curioso autodidatta di scritti di psicofisiologia. Dedica alla moglie Emma i “Principii di psicologia” di William James. Compulsa testi di James, di Janet, Ribot, Compayré, Bergson, e perfino un compendio dei “Tre saggi sulla sessualità” di Freud in un libro di Löwenfeld. Ama Poe e idolatra Dostoevskij. La produzione poetica di Tozzi è stata riunita e pubblicata a cura del figlio Glauco nel 1981, presso Vallecchi. I testi di Specchi d’acqua possono legittimamente costituire una sezione dotata di una sua temperatura espressiva, una prova autonoma sé stante – all’altezza del 1911-1912 –, come del resto era nelle intenzioni. Le vicende  editoriali che l’attestano non sto a rievocarle. Già l’inizio (« L’estate nuda mangia le sue pesche / su le messi tagliate e a terra spante ») è probante per avvertire l’aura dannunziana , «ambiguamente mistico-sensuale» ha scritto Benedetta Livi. Il panismo che permea la raccolta più che in sbocchi tragici e nichilisti si risolve in deliqui di compiaciuto martirio: «E mi struggo di non averti accanto; / e questo sole, come in un delirio / sente l’invidia dell’anima e del pianto».

I paesaggi s’infuocano di tinte e vibrano di suoni misteriosi: «Campanili di febbre, con campane/ vermiglie di tramonti e luci strane».  La croce è simbolo di penoso dolore: «Ogni mattino fu come una croce / dove l’anima mia stette inchiodata». Altri exempla potrebbero seguire. Lauretano nel suo sintetico saggio formula giudizi segnati da unilaterali sopravvalutazioni e bizzarri giochi dialettici. Tra i più singolari questo passo: «La definizione di ‘modernista’ di Tozzi è da accettare in pieno, perché purché lo si pensi volutamente antimoderno». Cioè: il perimetro entro cui Tozzi sperimenta la sua scrittura è moderno, ma si rovescia – si rovescerebbe – in un rifiuto senza scampo. Su questa via matura il distacco da Luigi Baldacci, che abbonderebbe in una lettura ideologica psicanalitica di stampo veterofreudiano: «Ma il cristianesimo non è ideologia» controbatte Lauretano. In replica a Carraresi-Giuliotti negli Egoisti Gavinai-Tozzi se n’esce in un’aspra invettiva contro la terza Roma: «È degna del suo parlamento e della borghesia che l’abita. Io vorrei che su la borghesia immonda e scema, Dio facesse piovere le fiamme. La disprezzo perché è stupida e insulsa. Io, da qui innanzi non amerò che i poveri, i santi e i briganti». Il dialogo tra i  due non va ascoltato come una registrazione in diretta, captata dal vero. L’annessione di Tozzi ad una sorta di misticismo della povertà è insistita e, sulla scia di un saggio di Alessandro Zammataro, l’autore non esita a rilevare nel pensiero mistico di santa Caterina addirittura la «base concettuale dell’intera produzione letteraria di Tozzi». Dire semplificazione agiografica è dir poco. La diacronia è ignorata. Riferendosi ad una stagione giovanile che partorì poesie di modesto valore, Tozzi viene  assegnato alla schiera di mistici in attesa di santificazione. Ma negli svolgimenti ultimi egli non fu né un ossequiente caterinato, né è comparabile ad un fanatico ciellino. Mai appagato fu il suo insicuro rapporto con un’aconfessionale religiosità, all’origine piuttosto di terrorizzate strette di paura, di sensi di colpa ricorrenti, e di sacrificali piaghe non rimarginate. Né rimarginabili.

                                                                                                                             Roberto Barzanti   

  

Una rivelazione improvvisa,  “Cultura commestibile” n. 374, 24 ottobre 2020, p. 25