«Basta un’istantanea scattata con il mio Iphone a uno dei miei quattro figli addormentato la mattina sul divano – questo anche ben prima del lockdown da Coronavirus – per far crollare l’intera costruzione teorica dell’alloggio funzionalista e della sua corrispondenza biunivoca tra stanze e attività – racconta al manifesto l’architetto Cino Zucchi – In un raggio di non più di due metri dal suo corpo sdraiato troviamo un laptop con le immagini congelate dell’ultima riunione di lavoro, una tazza di caffè, i resti di un pasto giappo-brasiliano ordinato a Deliveroo, un pacco Amazon Prime appena scartato, un cellulare con i messaggi del fidanzato straniero insieme alle icone delle tante app che costituiscono gli utensili vitali di un novello ’uomo di Similaun’ nell’ecosistema della città contemporanea».
Ma come tradurre tutte queste considerazioni nella progettazione di nuovi alloggi e nuove parti di città?, s’interroga ancora l’architetto. «Se esiste una certa facilità nel cambiare gli spazi di un appartamento con l’arredo o con lo spostamento di muri, non possiamo buttare via interi quartieri e città come facciamo con uno smartphone obsoleto. Spesso viviamo in case o quartieri costruiti nel passato da persone con valori, tecniche e stili di vita molto diversi dai nostri. La città arriva sempre a rispondere alla domanda che ha innescato il suo progetto leggermente ‘fuori tempo’; ma essa dura anche molto oltre il momento in cui il bisogno che l’aveva generato cessa o si modifica. Oltre a cercare di interpretare le tendenze demografiche, sociologiche e ideali di una società, bisogna quindi dotare gli spazi e gli edifici di una generosità e di una ’robustezza’ capaci di resistere e modificarsi in relazione alle necessità derivate dal prossimo ’cigno nero’ che avverrà quando, dove e come non ce lo aspettiamo».
A partire da uno spaccato di vita quotidiana, Cino Zucchi giunge a riflessioni di ampio respiro in merito ad alcune questioni che gli poniamo, relative al rapporto tra Covid-19 e Spazio. Progettista di fama internazionale, critico e docente ordinario di progettazione architettonica e urbana al Politecnico di Milano, Cino Zucchi è il titolare dello studio CZ Architects, con sede a Milano, uno dei territori sui quali più violentemente sembrano essersi manifestati gli effetti del contagio del virus.
Con l’emergenza Covid-19, il nostro spazio domestico è l’immagine con la quale ci si presenta al mondo; look, acconciature e modi di fare vengono interamente sostituiti da quel frammento di ambiente che si intravede sullo sfondo della nostra immagine nello schermo. Questo processo di esternazione dei nostri luoghi più intimi va di pari passo con un’esperienza di globalizzazione sempre più tangibile; si condividono con l’esterno gli spazi più reconditi, e allo stesso tempo si portano dentro casa gli effetti di un prodotto della globalizzazione, di un’idea di mondo senza confini che sembra essersi smaterializzata in una cloud di condivisione e di contagio. Cosa pensa a riguardo?
Ogni «catastrofe» spesso accelera fenomeni già presenti, rivelando di colpo la potenziale fragilità della loro struttura. La rivoluzione informatica aveva già modificato in maniera profonda il modo di abitare lo spazio domestico da parte dei cosiddetti millenials, e forse oggi ha trasferito di forza alcune delle sue caratteristiche sulle generazioni più vecchie, che sono state costrette dalla situazione a un addestramento pari a quello degli adolescenti che Hitler mandò al fronte. Il cortocircuito e la perdita di confine preciso tra la dimensione privata e quella pubblica è forse uno delle conseguenze più evidenti dei social media, e arriva a influenzare campi impensabili come l’economia e la politica, nella sua continua oscillazione tra not-in-my-backyard, assemblearismo mediatico, big data, populismo, fake news e social control. La distinzione che Michel de Certeau fa ne L’invention du quotidien (1980) tra la «strategia» delle istituzioni e la «tattica» dei loro utenti – che trovano modi inediti di usare i sistemi e le procedure da queste stabiliti – potrebbe oggi essere trasferita dalla maglia della città a quella del web, analizzando come le nostre pratiche spontanee tendano a ibridare tra loro l’uso dello spazio virtuale con quello dello spazio fisico.
Il virus mette in crisi il concetto di città. Intravisti dalle finestre, vissuti nelle strazianti file ai supermercati, o attraversati quotidianamente da chi continua a lavorare, gli spazi urbani sembrano diversi, enigmatici. Il confinamento sta dimostrando come sia possibile vivere senza città, investendo tutto nelle possibilità dell’ambiente domestico. Pensa che questi aspetti possano avere ripercussioni nelle visioni future che immaginano i luoghi e le forme urbane?
«Il tuo stile di vita ha bisogno di una città? Non preferiresti essere un cittadino del mondo? Non credi sia necessario un gap tra i tuoi sogni e l’ambiente reale? La città è ancora il paesaggio del futuro?». Queste erano alcune tra le domande provocatorie poste al pubblico dell’Expo di Osaka del 1970 dal gruppo radicale Archigram. Anche in questo caso, la cultura architettonica si stava interrogando già da prima della pandemia sulle conseguenze arrecate dai social media sull’uso dello spazio urbano. Non più di tre mesi fa, le parole co-workingco-housing ricorrevano quasi epidemicamente nelle relazioni di progetti architettonici come elementi chiave. Dovremmo ora coniare nuovi slogan come co(rona)-working e co(rona)-living, forse aiutati da qualche psico-sociologo in televisione?
Le profezie e le «futurologie proiettive» formulate da architetti-guru su sollecitazione di giornalisti affamati di notizie non tengono conto di due importanti fattori: la relativa «inerzia» della forma urbana una volta costruita e l’imprevedibilità di eventi come crisi finanziarie, guerre o catastrofi ecologiche. I centri commerciali progettati su previsioni di mercato sono oggi abbandonati e demoliti. Le foto attuali di piazze italiane deserte ci insegnano invece una cosa: gli spazi pubblici della città «consistono» sia vuoti che pieni, e non si contraggono come un pallone sgonfio se le persone restano a casa.
Forse un buon ambiente urbano non dovrebbe essere costruito su stili di vita, sensori interattivi, diagrammi di traffico o previsioni sul cambiamento climatico, ma sugli stati più profondi del benessere umano. Un portico che ci ripara dalla pioggia, una panchina esposta al sole autunnale o l’ombra di un albero ben posizionato funzionano altrettanto bene per coppie di sbaciucchioni, anziane pettegole, bande di cyber-punk o esistenzialisti malinconici, e ci accolgono con dolcezza sia il giorno della nostra promozione che quello in cui ci muore un genitore.
Lo spazio domestico diviene in alcuni casi un recinto ossessivo, osservato e verificato ininterrottamente, chiamato in continuazione a duri test di efficienza. Lavoro, leisure, affetti e vita sociale sono proiettati in casa, l’unico luogo sul quale, in questi tempi, sembra valere la pena investire. Quali cambiamenti si registreranno dopo quest’esperienza nel disegno dello spazio? Si affermerà una sorta di primato degli ambienti della residenza? Oppure, ora che sappiamo come fare a meno di certi spazi, ci troveremo a guardare ad altri orizzonti, magari spingendo l’acceleratore sul progetto di realtà virtuale?
Come la sfera di un indovino, la famosa sezione dell’Un-House/Environment Bubble concepita da Reyner Banham e François Dallegret nel 1965 raffigura come le connessioni mediatiche avrebbero potuto realizzare in futuro l’ideale di una casa-sacco amniotico potenzialmente ubiquo ma in connessione col mondo, e la scomparsa delle case come oggi le concepiamo.]La vita di tutti i giorni mette continuamente alla prova e adatta gli spazi esistenti a bisogni imprevisti. In un mondo ossessionato dal just-in-time, pensare a un’architettura just-out-of-time vuole dire anche riflettere sulla lunga durata, sulla plasticità degli ambienti esistenti, sulla rigenerazione delle città, sul riuso, sui cicli di vita dei manufatti: una «nuova ecologia» capace di integrare ambiente urbano e ambiente naturale, dove l’innovazione tecnica non è un feticcio formale, ma uno strumento di azione responsabile in un pianeta sempre più piccolo e delicato.