Un monumento a Kelsen

Sabino Cassese

Si sapeva da tempo che Thomas Olechowski, professore all’università di Vienna, stava lavorando alla biografia di Hans Kelsen. L’attesa è ora, dopo circa un quindicennio di ricerche, soddisfatta da questa opera monumentale (più di mille pagine), ricca anche dal punto di vista iconografico, che si accompagna con l’uscita dell’ottavo volume delle opere del grande giurista austriaco, anch’esso per i tipi dell’ottima casa editrice Mohr Siebeck.

Si disponeva già di una biografia di Kelsen, scritta nel 1969 da una persona che gli fu vicina, Rudolf Aladár Métall, nonché di due brevi scritti autobiografici del 1927 e del 1947 (tradotti e pubblicati a cura di Mario G. Losano, Scritti autobiografici, Diabasis, Reggio Emilia, 2008). Kelsen, a differenza di Schmitt, non tenne un diario. Questa biografia, divisa in quattro parti, dedicate all’impero absburgico, a Vienna, a Colonia, Ginevra e Praga, e all’America e il mondo, fa però passi da gigante, tratteggiando le diverse epoche della vita di Kelsen (in particolare la Vienna dei primi decenni del secolo e l’America a cavallo della Seconda guerra mondiale), collocando l’uomo nel suo tempo, narrandone minutamente la vita, con l’ausilio di una grande quantità di carte di archivi sparsi nel mondo, e di interviste, illustrando i contributi e le polemiche del giurista.

Kelsen nacque a Praga, come sottolinea l’autore, nello stesso anno, il 1881, di De Gasperi, di Stefan Zweig, di Picasso e di Natalija Gontscharowa, da una famiglia della piccola borghesia ebraica, che si trasferì presto a Vienna. Non fu studente brillante. Ebbe un amico geniale, che si suicidò presto, e studiò negli stessi anni di Ludwig von Mises e di Hans Mayer. Entrò in contatto con i circoli neopositivistici, pur non facendo parte del Wiener Kreis (1922-1936). Non contento dei suoi insegnanti, tra cui fu Edmund Bernatzik, andò a Heidelberg a sentire le lezioni di Georg Jellinek, che lo deluse, e a Berlino quelle di Heinrich Triepel. Fu sostanzialmente un autodidatta. Trentenne, scrisse il libro sui problemi principali della dottrina dello Stato, in cui sono “in nuce” i fondamenti della sua teoria pura del diritto. Presto libero docente, nel 1919 professore ordinario a Vienna, dove avrà presto numerosi allievi, tra cui brillano Merkl e Verdross, destinati a una grande carriera scientifica.

Kelsen, intanto, si legò alla socialdemocrazia, venne attratto dall’esperimento di democratizzazione della amministrazione tentato dopo la rivoluzione d’Ottobre nell’Unione sovietica (che però nel 1921 giudicò un fallimento), lavorò per il cancelliere Karl Renner, per cui scrisse la Costituzione repubblicana, secondo un modello svizzero, che però personalmente non condivideva, ma introducendovi la Corte costituzionale, di cui diventò membro. Intanto, le sue opere erano conosciute all’estero (vennero tradotte in trenta lingue), l’autore venne invitato in varie università, entrò in rapporto con Sigmund Freud. Nel 1930 cominciò, a causa dello sviluppo dell’antisemitismo, la sua odissea. Insegnò a Colonia dal 1930 al 1933, a Ginevra fino al 1940, con una parentesi praghese (1936-38), a Harvard (1940-42), infine a Berkeley fino al 1952, ove morì nel 1973.

Interessanti, dal punto di vista di storia della cultura giuridica, le ulteriori vicissitudini americane di Kelsen, che avrebbe voluto insegnare in una facoltà giuridica. A Berkeley ottenne un insegnamento nella facoltà di Scienze politiche, non nella “Law School”. Un professore di Harvard scrisse al preside di Berkeley: «Secondo il nostro punto di vista americano, Kelsen non è un giurista, ma un filosofo o sociologo». Il conflitto culturale con il realismo e l’approccio casistico dei giuristi americani era tanto più evidente in quanto negli stessi anni insegnarono a Boalt Hall, sede della facoltà giuridica di Berkeley, altri famosi “émigrés” di area tedesca come Albert Ehrenzweig e Stefan Riesenfeld. Terminato l’insegnamento, nonostante le indagini dell’Fbi dettate dal clima maccartista e i frequenti inviti e corsi di conferenze in Europa, Kelsen non si ristabilì in Europa. Deciso a non scriver più di diritto, dopo il 1966, si dilettò a scrivere poesie.

Kelsen è noto per la sua teoria pura del diritto. Questo è inteso come specifica tecnica sociale, separata dalla politica e dalla sociologia, dominata dalla norma, che è al centro del lavoro del giurista. L’ordinamento giuridico è insieme gerarchico di norme, una piramide, fondata su una “Grundnorm”, una norma base. Il giurista non deve farsi influenzare da giudizi di valore e deve tener separati esser e dover essere. Insomma, Kelsen appartiene a quella schiera di studiosi che, ispirati al rigore della logica matematica, hanno cercato di assicurare autonomia alla scienza giuridica e al suo oggetto. Noi oggi sappiamo che questa ricerca di purezza, autonomia, separatezza, “Wertfreiheit”, “scienza del diritto indipendente”, ha dotato i giuristi di strumenti nuovi di analisi, ma, a lungo andare, li ha portati lontano da quei campi, alle intersezioni con altri rami del sapere, dove si mescolano fatto e diritto, istituti e valori, norme e contesti, che sono quelli dove il diritto, il più “impuro” degli artefatti sociali, progredisce.

L’autore di questa poderosa biografia, professore all’università di Vienna, nato – come lui stesso ricorda – nell’anno della morte di Kelsen, ha eretto un monumento al grande giurista, tracciandone minuziosamente la storia della vita (fino al suo interesse per il cinema, la vita familiare, le retribuzioni di lezioni e conferenze) e delle opere, nonché disegnando accuratamente gli ambienti culturali (la Vienna repubblicana, dopo la grande guerra, Colonia, la ricchezza di rapporti intessuti a Ginevra, l’humus culturale di Harvard negli anni della Seconda guerra mondiale), mettendo in relazione la vita, i tempi, i contesti, l’opera scientifica. Più Kelsen ribadiva le sue tesi puristiche (ogni circa dieci anni è ritornato sulla sua creatura), più la realtà lo smentiva (si pensi solo alle grossolane violazioni del diritto internazionale, al quale egli si dedicò in prevalenza dopo aver abbandonato Vienna, o al tribunale di Norimberga, la cui stessa esistenza smentisce l’impostazione positivistica kelseniana).

 

https://www.ilsole24ore.com/